Il fulmine e il serpente

A cura di Eleonora Del Riccio
Sapienza Università di Roma
E-mail: elo-dr@hotmail.it





Spiegare il diverso valore di cui viene investito uno stesso elemento nel corso dell’evoluzione e del ripensamento della Storia dell’Arte su se stessa è una questione che tale disciplina si è già posta e che probabilmente continuerà a porsi in futuro. Il montaggio di immagini qui proposto mira ad analizzare uno di questi elementi ripetuti, che si è caricato di significati diversi o addirittura contrastanti nel corso del tempo. È bene sottolineare che avremmo potuto presentare molte più immagini esplicative di questo processo; tuttavia, abbiamo deciso di operare una selezione funzionale ai fini della nostra trattazione.
Innanzitutto, l’elemento che accomuna il celebre gruppo scultoreo del Laocoonte, l’immagine dei quattro fulmini e quella dell’elegantissima Igea è la presenza di un animale: il serpente.
Laocoonte, sacerdote di Poseidone (o Apollo), predisse la fine di Ilio quando in città giunse il cavallo di legno con dentro gli Achei e per questo fu punito da Atena, che inviò due grossi serpenti marini affinché stritolassero l’uomo e la sua progenie. Della convulsa torsione serpentina dei corpi e dello strazio del volto dell’uomo si è a lungo parlato nella storia della Critica d’Arte, a cominciare da Goethe che colse l’essenza di questa immagine con una felice metafora: «Oserei dire che esso, così come si presenta attualmente, è un fulmine immobilizzato, un’onda pietrificata nell’istante in cui si infrange sulla riva».
Qui il serpente ha un valore distruttivo e vendicativo, una sorta di equivalente pagano della Passione di Cristo, come ebbe a definirlo Aby Warburg. Non c’è speranza o redenzione, ma solo «il pessimismo tragico e disperato dell’antichità».
Il Laocoonte come “fulmine immobilizzato” ci porta alla seconda immagine in cui compaiono dei serpenti a forma di fulmine che, simmetricamente disposti, si vedono scendere dal cielo e puntare verso il basso, come delle frecce zigzagate. L’immagine venne proposta nel resoconto del viaggio di Warburg in Nuovo Messico e Arizona, viaggio che portò lo studioso a indagare i riti e le danze propiziatorie degli indiani Pueblo (1923). In questo saggio, si legge infatti che: «Nella danza del serpente a Walpi si costringono i serpenti a un ruolo di mediazione. Nel mese di agosto, quando devono arrivare i temporali, i serpenti vengono catturati vivi nel deserto nel corso di una cerimonia che a Walpi dura sedici giorni [...]. Poi esso [il serpente] viene scagliato su una pittura fatta con la sabbia sul pavimento della kiwa, raffigurante quattro serpenti-fulmine con un quadrupede al centro. In un’altra kiwa, una seconda pittura su sabbia rappresenta invece un cumulo di nuvole da cui escono quattro fulmini serpentiformi dai colori diversi, che corrispondono ai quattro punti cardinali [...]. Mi sembra indubbio che proprio attraverso la magia di questo lancio si vuole obbligare il serpente ad agire, suscitando il fulmine ovvero generando la pioggia».
Ecco allora che qui il serpente ha il valore di messaggero propiziatore del temporale, elemento climatico indispensabile per praticare l’agricoltura e quindi per garantire la sopravvivenza degli indiani in regioni aride come il Nuovo Messico.
Il valore significante del serpente muta ancora se si considera la terza immagine. Come e perché il serpente divenne l’animale sacro al dio latino Esculapio (il greco Asclepio) è storia ben nota e di cui si hanno tracce anche oggi nel simbolo internazionale del soccorso medico. In quest’ultimo caso infatti, il serpente ha un valore taumaturgico, e Asclepio fu inizialmente venerato con le sembianze di questo animale come dio equo delle anime dipartite che risiedevano, come il serpente, nel regno sotterraneo. E nella sua apparizione attorno al bastone, l’anima dipartita tornava a vivere, proprio come il serpente gli aveva mostrato perdendo la pelle.
Igea è considerata da alcune fonti come la figlia di Asclepio, da altre come la sua sposa. Era venerata insieme al dio, con il quale condivideva le medesime funzioni ed era spesso rappresentata intenta nell’abbeverare un serpente a una coppa. Questa iconografia fu scelta anche da Klimt per ritrarre la fanciulla in uno dei pannelli commissionati dal Ministero per l’Istruzione nel 1894 per decorare l’aula magna dell’Università di Vienna. La sacerdotessa, tramite la raffigurazione più estesa che compariva alle sue spalle e il pubblico, appariva in basso nel pannello con la raffigurazione della Medicina ed era il solo elemento di speranza, insieme alla giovane liberata dal dolore, in tutta la rappresentazione, che invece insisteva sulla tragica impotenza della scienza medica nel liberare il genere umano dalla sofferenza causata dalle malattie.
Azzarderemmo che, sebbene il serpente continui ad avere un valore taumaturgico, in questo caso è didascalicamente impiegato in un’iconografia che rispetta formalmente la tradizione, ma che allo stesso tempo irretisce l’osservatore al cospetto della bella Igea, che in quello sguardo cupo sembra a un tratto liberare da ogni afflizione e causare nuovo scompiglio.  
Ecco quindi la parabola del serpente in tre immagini, il suo cambiamento di significato in contesti che differiscono per luogo geografico, datazione e artefice, e tuttavia in cui anche la medicina è compresa nella sua duplice valenza irriducibile di scienza curativa e lenitrice delle sofferenze, ma non al punto da riuscire davvero a liberare l’umanità dalla sua stessa fine.
Bibliografia di riferimento
– Goethe JW. “Laocoonte” e altri scritti sull’arte (1789-1805). Roma: Salerno Editrice, 1994.
− Warburg A. Il Rituale del Serpente. Milano: Adelphi, 1998.
− Ferrari A. Dizionario di Mitologia. Torino: Utet, 1999.
− Dobai J. L’opera completa di Klimt. Milano: Rizzoli, 1994.