Riflessioni medico-legali su un caso giudizario di mobbing

Medico-legal implications of mobbing: a case law

ILENIA FOLLETTI1, GIACOMO GUALTIERI2, MARCO DELL’OMO1, ALESSANDRO CUOMO3,
ANNA COLUCCIA
2, MASSIMO LANCIA4
*E-mail: giacomogualtieri2000@gmail.com

1Dipartimento di Medicina, Sezione di Medicina del Lavoro, Malattie Respiratorie e Tossicologia Professionali e Ambientali,
Università di Perugia
2Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Neuroscienze, Università di Siena
3Dipartimento di Medicina Molecolare, Università di Siena
4Sezione di Medicina Legale, Scienze Forensi e Medicina dello Sport, Università di Perugia


RIASSUNTO. Lo stress e le violenze morali nei luoghi di lavoro, come indicato dai dati epidemiologici, sono in costante aumento e rappresentano una causa di alterazione dello stato di salute dei lavoratori, con importanti ricadute negative sui soggetti, sulle aziende e sulla società. Nel caso descritto qui di seguito, le violenze morali e la disfunzionalità organizzativa, una delle principali fonti di stress correlato al lavoro, sono state intenzionalmente impiegate quale mezzo mobbizzante nei confronti di un lavoratore da parte dei suoi superiori (mobbing verticale). Attraverso il procedimento giudiziario, intrapreso dal lavoratore per vedersi riconosciuto vittima di mobbing, è stato possibile ripercorrere e identificare le ragioni e le modalità dell’azione mobbizzante, l’eziopatogenesi della conseguente psicopatologia, la sua strutturazione e la manifestazione sintomatologica. L’esame del caso permette di formulare delle considerazioni riguardo la necessità che i casi di mobbing siano trattati all’interno di un team multidisciplinare (medico di famiglia, medico del lavoro, psichiatra e medico legale) al fine di garantire un efficace trattamento terapeutico e la tutela del lavoratore nei diversi ambiti previsti dalla legge.

PAROLE CHIAVE: organizzazione lavorativa, stress lavoro correlato, violenza morale, mobbing, medicina forense, caso giudiziario.


SUMMARY. Epidemiological data indicate that distress and psychological violence in the workplace are steadily increasing and have negative health effects for employees. Aside from the damages to the victims of violence, organizations are finding that workplace violence, bullying and mobbing may severely damage companies as well, for instance in terms of reduced productivity, absenteeism, excessive employees’ turnover, impact to the company’s reputation, medical and legal costs. We report of a case where psychological violence and organizational dysfunction, which represent the main sources of work related distress, have been intentionally used as a mean of vertical mobbing. An analysis of the information that was presented in Court to prove a case of mobbing permitted to track and identify the reasons and modalities of mobbing, as well as the etiopathogenesis of the resulting psychopathology and of the consequent somatic symptoms. This case description highlights the need to involve a multidisciplinary team (family doctor, occupational physician, psychiatrist and forensic physician) in order to ensure a fair analysis and – when appropriate – to suggest an appropriate treatment for individuals who file a mobbing claim.

KEY WORDS: workplace conflicts, work related stress, bullying, mobbing, forensic medicine, case law.

INTRODUZIONE
I dati epidemiologici che emergono dal rapporto del National Institute for Occupational Safety and Health (NIOSH) e dalla letteratura1,2 indicano un costante aumento dello stress e delle violenze morali nei luoghi di lavoro ed evidenziano la ricaduta negativa sulla salute psico-fisica del lavoratore3-8, sulle aziende e sulla società9-12. Lo stress e le situazioni conflittuali possono essere la conseguenza di una disfunzionalità organizzativa o di un’azione mobbizzante; nel secondo caso è presente un aspetto di intenzionalità, difatti «il mobbing è comunemente definito come una forma di molestia o violenza psicologica esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo iterativo, con modalità polimorfe»13 attraverso «un’aggressione psicologica volta a spingere una persona alla sua esclusione dal contesto lavorativo o danneggiare alcuni aspetti del ruolo lavorativo e della mansione»14.
Quando l’intenzionalità viene dimostrata, il lavoratore, oltre alle tutele riconosciute dall’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro (INAIL), riconosciuta per le patologie conseguenti alle “costrittività organizzative”, contratte nell’esercizio e a causa dell’attività lavorativa svolta, ha diritto a un risarcimento in ambito di responsabilità civile (art. 2043-2059 c.c.), in quanto conseguenza di una condotta illecita. In letteratura, tuttavia, sono presenti solo pochi case report nei quali, attraverso gli atti di un procedimento giudiziario, vengono ricostruiti in maniera altrettanto completa l’eziopatogenesi, la strutturazione, la manifestazione sintomatologica e la diagnosi di una psicopatologia conseguenza di una azione mobbizzante. Dall’analisi del caso qui presentato emerge, inoltre, la necessità che i casi di mobbing siano trattati all’interno di un team multidisciplinare (medico di famiglia, medico del lavoro, psichiatra e medico legale) al fine di garantire un efficace trattamento terapeutico, ma anche la tutela del lavoratore nei diversi ambiti previsti dalla legge, e in questa prospettiva medico-legale assume un ruolo centrale la figura dello psichiatra.
IL CASO
Un uomo di 61 anni, dipendente da oltre 30 di un’amministrazione pubblica e con un incarico dirigenziale da circa 20 anni, circa 10 anni fa riferiva comportamenti ostili da parte dei propri responsabili, a seguito del rifiuto di eseguire direttive che riteneva non applicabili a norma di legge; tali comportamenti erano rappresentati da un sovraccarico lavorativo, da richieste dequalificanti rispetto alla propria posizione professionale e da continue contestazioni riguardo al lavoro svolto, sia attraverso pubbliche umiliazioni sia tramite continui avvertimenti in merito all’eventuale decurtazione economica in caso di mancato svolgimento del lavoro richiesto.
In occasione di un ennesimo richiamo formale, seguito da una vivace discussione con i propri responsabili, il soggetto avvertiva un senso di oppressione toracica e tachicardia, seguiti, nei giorni successivi, da insonnia, umore depresso, disturbi gastro-intestinali, spasmi perineali, episodi d’ipertensione arteriosa ed eruzioni orticarioidi agli arti, per i quali effettuava due accessi al pronto soccorso e numerose visite specialistiche. Su indicazione del medico di famiglia si recava presso il Servizio di Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (SPreSAL) della competente ASL, dove veniva posta diagnosi di disturbo post-traumatico da stress (DPTS) cronico che gli stessi sanitari correlavano con il forte stress lavorativo. La permanenza dei sintomi lo costringeva a un periodo di assenza dal luogo di lavoro durante il quale era sottoposto a terapia farmacologica con ansiolitici e antidepressivi. Il lavoratore presentava domanda all’INAIL per il riconoscimento di malattia professionale, ma l’istituto esprimeva parere negativo; decideva, pertanto, di adire alle vie legali. Nel corso del processo è emerso da parte dei suoi responsabili un comportamento caratterizzato da atteggiamenti discriminatori e vessatori, finalizzati all’emarginazione del lavoratore. Il consulente medico-legale del giudice sottoponeva il soggetto a una valutazione psichiatrica e a specifici test psicometrici. Il test del DPTS riportava un punteggio pari all’86%, evidenziando comportamenti a rischio e un numero elevato di sintomi che riflettevano il forte trauma subito e la compromissione della qualità di vita. Il test per l’Hamilton Rating Scale For Depression 15 riportava un punteggio pari a 13, corrispondente a una lieve deflessione del tono dell’umore. Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory16 descriveva un soggetto depresso, con rallentamento psicomotorio, indecisione, dubbi e tendenza a comportamenti anancastici nonché a mettere in atto acting-out di tipo aggressivo, gravi problemi di socializzazione e di inserimento in un gruppo, un basso livello di autostima, tendenze all’autoaccusa con sentimenti di inadeguatezza e autodeprecazione, patologia ipocondriaca con polarizzazione sul proprio corpo, in assenza di lesioni somatiche obbiettive. Inoltre, le capacità di effettuare un corretto giudizio di realtà apparivano compromesse e le difese non efficaci, con tendenza a reagire allo stress e alla tensione ambientale mediante regressione e messa in atto di meccanismi di proiezione. Erano evidenziati, infine, gravi sintomi di ansietà con tensione e frequenti problematiche di tipo somatico, astenia, difficoltà all’addormentamento, tendenza alla preoccupazione, scarsa capacità di concentrazione e gravi spunti fobici (le fobie includono la vista del sangue, l’altezza, l’uscire di casa, gli animali come i serpenti o i topi o i ragni, ecc.). L’interpretazione, attraverso l’analisi dei punteggi ottenuti sulle scale di validità, consente di ritenere attendibili i risultati del test, che evidenziano aspetti depressivi associati a scarsa autostima, ideazione di autosvalutazione, inadeguatezza e tendenza all’autoaccusa. Emergono inoltre componenti ossessivo-compulsive (dubbio, incertezza) in aggiunta ad acting-out di tipo aggressivo con tendenza al ritiro sociale e difficoltà di adattamento nel contesto sociale. Risulta inoltre evidente una polarizzazione ipocondriaca associata ad ansia somatizzata, tensione, insonnia, fobia specifica e atteggiamenti interpretativo-proiettivi con verosimile compromissione del giudizio di realtà. Al termine degli accertamenti clinici e dei test psicodiagnostici era posta, con valutazione clinica relativa al soddisfacimento dei criteri DSM-5 17, la diagnosi di DPTS cronico di grado moderato che il consulente tecnico d’ufficio (CTU) poneva in correlazione con la condotta mobbizzante subita dal lavoratore.
DISCUSSIONE
La diagnosi di DPTS cronico di grado moderato rientra nelle categorie di disturbi di ordine psichico che la dottrina medico-legale e la criteriologia valutativa dell’INAIL ritengono ascrivibile alle condotte mobbizzanti e alla costrittività organizzativa, ossia il disturbo dell’adattamento e il DPTS. Nello specifico l’INAIL, nella Circolare n.71 del 17 dicembre 2003 (“Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche”), riconosce le seguenti situazioni di “costrittività organizzativa”: prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie, inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo, svuotamento delle mansioni. Chiarita la sussistenza della situazione di costrittività organizzativa, il CTU riconosceva la patologia psichiatrica, nosograficamente inquadrata nell’ambito del DPTS cronico e insorta a causa e nell’esercizio della propria attività lavorativa. In merito all’epoca della manifestazione della malattia il CTU faceva riferimento alla prima valutazione psicodiagnostica eseguita dal lavoratore presso il SPreSAL della ASL di appartenenza, a seguito della quale era diagnosticato il DPTS. Riguardo la valutazione dell’invalidità permanente, la Circolare n.71 del 17 dicembre 2003 prevede che la valutazione del danno biologico permanente faccia riferimento alle voci tabellari INAIL n. 180 (“Disturbo post-traumatico da stress cronico moderato, a seconda dell’efficacia della psicoterapia: fino a 6”) e 181 (“Disturbo post-traumatico da stress cronico severo, a seconda dell’efficacia della psicoterapia: fino a 15”). In tema di mobbing, la dottrina medico-legale è tuttavia solida nell’affermare che le voci indicate dall’Istituto, seppure diano percentuali indicative, prospettino comunque un tetto valutativo restrittivo; infatti, la variabilità dei quadri dei disturbi psichici mobbing-correlati è tale da dover imporre, a chi valuta il soggetto, un’attenta analisi della penetranza dei sintomi (ricordi sgradevoli, ricorrenti e involontari dell’evento traumatico, episodi di flashback, attenuazione della responsività, marcato calo dell’interesse e della partecipazione in attività significative con ridotto coinvolgimento verso il mondo esterno, persistenti condizioni emotive di segno negativo, presenza di disturbi neurovegetativi, disforici e cognitivi). L’analisi dell’entità e della numerosità dei diversi sintomi che caratterizzano il DPTS permette, difatti, di graduare il disturbo stesso in diverse forme in base alla gravità: forma lieve; forma moderata o lieve complicata; forma grave o moderata complicata; forma grave complicata. Sulla base della gravità e della forma del DPTS deve essere valutata la conseguente invalidità permanente. Le proposte valutative sono state diverse nel corso del tempo; a oggi è ampiamente condiviso quanto affermato da Buzzi e Vanini nel 2001 18 e più recentemente ribadite nel 201419 in merito al DPTS: lieve: 11-15%; moderato o lieve complicato: 16-20%; grave o moderato complicato: 21-25%; grave complicato: 26-30%.
Nel caso specifico, con riferimento alle voci tabellari n.180 e 181 prima ricordate, era individuata una menomazione dell’integrità psico-fisica nella misura del 12% di danno biologico. La valutazione medico-legale del danno in ambito INAIL è spesso oggetto di valutazioni che eccedono i valori indicati dalle voci tabellari n.180 e 181; a tal proposito si ricorda la motivazione di una sentenza del Tribunale di Trieste del 06/10/2010 con la quale, in tema di demansionamento del lavoratore, riporta che il CTU «oltre a confermare la quantificazione del danno biologico già in precedenza espressa a fini civilistici, valuta nella misura del 20% anche l’invalidità ai fini INAIL», giudicando la quantificazione prevista nelle tabelle INAIL sottostimata e penalizzante per il lavoratore in rapporto alla menomazione dell’integrità psico-fisica accertata.
CONCLUSIONI
Nel caso illustrato si riconoscono le caratteristiche di un mobbing verticale: i superiori hanno difatti messo intenzionalmente in atto comportamenti ostili e una disfunzionalità organizzativa, quali elementi lesivi di un’azione mobbizante, mentre i colleghi si sono dimostrati solidali, testimoniando i soprusi e le prevaricazioni cui il compagno di lavoro era sottoposto, limitando l’isolamento in ambito lavorativo. L’azione iterata dei “mobber” ha determinato un danno alla salute psico-fisica del lavoratore che si è manifestato attraverso disturbi emozionali, somatoformi e comportamentali e che, dopo specifici accertamenti clinici e strumentali, è stato diagnosticato quale DPTS cronico di grado moderato.
L’insorgere di sintomi emotivi e comportamentali clinicamente significativi ha determinato lunghi periodi di malattia, in termini di perdita di giornate lavorative, e una significativa compromissione dell’efficienza lavorativa e sociale. Un ruolo importante nella diagnosi e nel trattamento è stato ricoperto dal medico di famiglia, il quale, comprendendo la natura psicosomatica dei sintomi e la correlazione con le riferite difficoltà nell’ambiente lavorativo, lo inviava presso il competente SPreSAL. La richiesta di riconoscimento di malattia professionale da parte del lavoratore, in quanto affetto da disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro, ha condotto al riconoscimento di una indennità da parte dell’INAIL, secondo quanto previsto dalle tabelle di legge, che risulta tuttavia riduttiva rispetto alla menomazione dell’integrità psico-fisica subita. A questo proposito si sottolinea che quando viene riconosciuta una azione mobbizzante il lavoratore ha la possibilità di integrare quanto indennizzato dall’INAIL con una richiesta di risarcimento al datore di lavoro.
Le implicazioni legate alla salute e alla sicurezza del lavoratore e alla tutela dei suoi diritti nei diversi ambiti previsti dalla legge richiedono che il paziente sia trattato all’interno di un team multidisciplinare (medico di famiglia, medico del lavoro, psichiatra e medico legale) al fine di garantire una diagnosi e un trattamento terapeutico precoce, l’individuazione e la rimozione dei “rischi lavorativi” e delle violenze morali nel luogo di lavoro, e l’attivazione dei previsti strumenti di tutela. In questa prospettiva assume un ruolo fondamentale la figura dello psichiatra, chiamato a valutare la realtà, la natura, l’entità e le conseguenze della patologia e il rapporto di causalità con l’azione lesiva, attraverso una individualizzazione del caso, senza cioè ricorrere a inquadramenti standardizzati, al fine di accertare la specifica natura della patologia riconducibile al mobbing. L’accertamento del nesso di causalità e dell’efficienza lesiva costituisce, difatti, la premessa essenziale alla valutazione e quantificazione medico-legale del danno biologico.


Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.
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