Malati di mente e produzione figurativa


A cura di Eleonora Del Riccio
Sapienza Università di Roma
E-mail: elo-dr@hotmail.it


Max Ernst (1891-1976), La camera da letto del signore, 1920 ca (in copertina)
Collage, gouache e matita su una pagina di libro scolastico, 16,3 x 22 cm


L’espressione, il gioco, l’elaborazione ornamentale, l’ordine strutturato, la copia ossessiva e i sistemi simbolici. Sono queste le sei spinte che secondo il dott. Hans Prinzhorn (1886-1933)1 caratterizzano la produzione figurativa dei malati di mente. L’interesse per questo tipo di attività plastica lo spinse a raccogliere una quantità considerevole di disegni di quasi 450 pazienti e culminò nella pubblicazione de L’attività plastica dei malati di mente: contributo alla psicologia e psicopatologia della configurazione nel 1922. Prinzhorn era interessato alla psicologia dell’espressione e da un lato vedeva le “sei spinte” della produzione schizofrenica attive in ogni tipo di produzione artistica; dall’altro, contraddicendosi, sconsigliava qualsiasi tipo di relazione tra l’arte “degenerata”2 e quella “sana”.
Tutto ciò serve a introdurre uno dei grandi serbatoi di temi dell’arte modernista, perché, insieme all’arte primitiva e a quella infantile, l’arte dei malati contribuisce a identificare una tipologia di individuo creativo libero dalle catene della civiltà. Il bambino e il malato di mente hanno «la capacità di vedere»3 e come Paul Klee (1879-1940) si illudeva di scorgere in questo un’innocenza della visione che si risolveva in un’intensità confinante con il terrore del soggetto perso nello spazio, così Prinzhorn si rese conto che l’espressionismo che cercava era in realtà un non-espressionismo, indice di rifiuto.
Il discorso diventa più chiaro se si osserva l’immagine presa in considerazione4. La chiave di lettura è il legame che si viene a instaurare tra la frammentazione delle raffigurazione e quella dell’io che viene rappresentato, legame difficilmente realizzabile senza la produzione schizofrenica. Il protagonista di questo collage è l’autore che osserva la scena e che a sua volta ne è coinvolto; celebre è la frase di Ernst: «Come spettatore l’autore assiste […] alla nascita della sua opera. […] Il compito del pittore consiste […] nel proiettare ciò che è in lui». L’autore come creatore e recettore attivo delle sue immagini è la condizione che ha come conseguenza l’abdicazione alla graniticità e unicità che caratterizzava l’artista tradizionale.
L’accostamento di elementi che sembrano non avere nulla in comune è stato spiegato dalla critica psicoanalitica come un richiamo a una “scena primaria” dell’infanzia di Ernst in cui il bambino fece per la prima volta esperienza della pittura osservando il padre che realizzava dei segni “gioiosamente osceni” su un pannello. Una visione del genere, per quanto valida, non può essere considerata la sola spiegazione. La prospettiva alienante, la sovrapposizione del tavolo sul letto, la presenza dell’orso e della pecora che guardano allusivamente il pittore e gli animaletti con la balena in primo piano suggeriscono un accostamento non solo inusuale ma anche sgradevole. E questo avviene perché non richiama nessuna esperienza fatta in prima persona dall’io-pubblico che osserva, perché si avverte subito che non si tratta di un’immagine adatta a un libro scolastico, supporto sul quale il collage è stato realizzato. Soprattutto in questi casi, dunque, l’opera desublimata si fa veicolo con tutte le sue stranezze rappresentative di qualcosa altro-da-essa, di intellegibile. Ed è proprio questo il suo scopo: mostrare attraverso forme semplificate un contenuto tutt’altro che semplice.
In conclusione, è inevitabile il confronto con l’arte surrealista la quale attingerà copiosamente a lavori come quello qui proposto. Questo perché essa, per dirla con André Breton (1896-1966)5, è espressione «di due realtà più o meno diverse», tradizionalmente associate al mondo della malattia mentale, all’universo interiore e inconscio dell’uomo, al sogno.