La pica: aspetti nosografici e rilievi psicopatologici

Pica: nosographical and psychopathological aspects
GENNARO IORIO1, VINCENZO PRISCO1, NICOLA IORIO1
E-mail: vinciprisco@gmail.com; gennaro.iorio@unina2.it
1Dipartimento di Salute Mentale e Fisica e Medicina Preventiva, Seconda Università di Napoli

RIASSUNTO. Gli autori, dopo aver osservato un caso clinico di disturbo ossessivo-compulsivo, associato a una sindrome di pica, analizzano lo sviluppo psicopatologico dell’intera sintomatologia, mettendo in discussione alcune opinioni, presenti in letteratura, tendenti a includere la pica nell’ambito dello spettro dei disturbi ossessivo-compulsivi. Essi, invece, interpretano la coesistenza delle due sintomatologie semplicemente come espressione di una condizione di comorbilità, esprimendo le ragioni per le quali sono più favorevoli ad assimilare la Pica all’ambito dei disturbi dell’alimentazione.

PAROLE CHIAVE: pica, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbi dell’alimentazione, psicopatologia, nosografia.


SUMMARY. The authors, after examining a clinical case of obsessive-compulsive disorder, associated to Pica syndrome, analyse psychopathological development of the symptomatology in its complex, refuting some statements of published studies, that include Pica within obsessive-compulsive disorder spectrum. On the contrary, they think the coexistence of the two symptomatologies simply as an expression of a comorbidity, explaining why they are prone to link Pica with eating disorders.

KEY WORDS: pica, obsessive-compulsive disorder, eating disorders, psychopathology, nosography.

INTRODUZIONE
Il termine pica indica l’ingestione di sostanze non commestibili (terra, sabbia, carta, gesso, legno etc.) e deriva dal latino (gazza), un uccello che si caratterizza per la sua tendenza a rubare oggetti non commestibili e a mangiarli1. L’ingestione di sostanze non alimentari si deve protrarre per un periodo di almeno un mese ed è inappropriata rispetto al livello di sviluppo (generalmente in bambini più grandi di 18-24 mesi).
La diagnostica non è applicabile a bambini o adulti affetti da ritardo mentale, né ad alcuna categoria di pazienti schizofrenici, soprattutto quelli cronici e con lunghe storie di istituzionalizzazioni, né a individui appartenenti a culture che accettano tale pratica. Questa, per esempio, è endemica tra gli aborigeni australiani, legata a fattori culturali, che ritengono l’argilla un cibo della fertilità e protettore della gravidanza.
Tale comportamento è stato osservato con minore frequenza negli uomini rispetto alle donne e sembra diminuire con l’età2, mentre è difficile stabilirne l’incidenza, perché si tratta di un disturbo raro nella popolazione generale.
La sistemazione nosografica della pica è incerta e suscettibile di opinioni differenziate; poco esplorato appare, invece, il profilo psicopatologico.
Mentre nel DSM-III-R viene considerata fra i disturbi del comportamento alimentare, insieme all’anoressia, alla bulimia nervosa e al disturbo da ruminazione dell’infanzia, nel DSM-IV-TR è catalogata fra i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza e fa gruppo a parte rispetto ai disturbi del comportamento alimentare. Stein et al.3 includono, invece, la pica nell’ambito dei disturbi del controllo degli impulsi. Secondo altri autori, tale comportamento alimentare sarebbe da considerare al limite tra l’asse ossessivo e quello impulsivo4. All’interno di tale spettro andrebbero inclusi la sindrome di Gilles de la Tourette, la cleptomania, la tricotillomania, il gioco d’azzardo patologico e la dismorfofobia, tutti accomunati da una discreta risposta ai farmaci serotoninergici. Il picacismo è stato, inoltre, associato all’anoressia nervosa e alla depressione5.
Il picacismo si può riscontrare nei bambini, in cui è più frequente6-8, o negli adulti, nei quali spesso si associa a ritardo mentale, psicosi, gravidanza, anemia ferropriva, disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)9,10. Beecroft et al.11 hanno riportato uno stretto legame con deficit cognitivi e associato tale comportamento orale a lesioni del lobo temporale. Molti studi, oltre a evidenziare una correlazione tra la pica e la carenza di ferro, hanno riscontrato come tale comportamento scomparisse dopo la risoluzione farmacologica di tale carenza12-14. In altri casi clinici è stata riscontrata, invece, una carenza di zinco15.
Altri autori hanno, inoltre, individuato nello stress psicosociale la causa scatenante principale del picacismo, sottolineando l’importanza della deprivazione materna, della separazione dei genitori, del maltrattamento dei figli e della scarsa interazione madre-bambino e sollecitando un’attenta valutazione di questi fattori ai fini di una corretta sistemazione nosografica16.
OSSERVAZIONI
Quando ci siamo trovati al cospetto di un caso di pica, la nostra attenzione e il nostro interesse sono stati sollecitati sia dalla presenza di una patologia poco frequente nella popolazione generale, per cui è considerata una sindrome rara, sia dalla sua eterogenea sistemazione nosografica, con scarsi riferimenti al suo profilo psicopatologico.
In letteratura, le argomentazioni cliniche sul picacismo si limitano, infatti, a esaminarne l’inquadramento diagnostico o a evidenziarne la correlazione con altre condizioni psicofisiche, trascurandone il profilo dinamico di sviluppo.
Consapevoli di quanto una definizione di psicopatologia generale abbia sempre bisogno di integrarsi con le caratteristiche specifiche dei singoli casi clinici, ci siamo posti l’obiettivo di approfondire l’anamnesi e l’esame psichico di una donna, giunta alla nostra osservazione ambulatoriale, che presentava un quadro clinico di picacismo, associato a un DOC.
Sarebbe stato facile circoscrivere la valutazione clinica entro i confini di un’opinione corrente, secondo cui la pica è in alcuni casi assimilabile allo spettro del DOC17,18. Una volta definita la categoria diagnostica, ci saremmo dovuti esclusivamente occupare della terapia, ispirata naturalmente alla natura di quel disturbo. Ma una simile definizione diagnostica non ci soddisfaceva: appariva difficile spiegarci perché il DOC in certi soggetti assumesse una configurazione così particolare, mentre il quadro clinico del picacismo sembrava includere ben altri riferimenti psicopatologici19,20. Non tutti gli ossessivi giungono a ingerire sostanze non commestibili; d’altra parte cibarsi di materiali, che normalmente non hanno alcun significato nutritivo bensì un effetto addirittura deleterio, implica una distorsione nella rappresentazione simbolica di quelle sostanze, evocando, così, un tipo di disturbo non certo riconducibile al DOC. Inoltre, la letteratura riporta casi di picacismo presenti in tutt’altri tipi di condizioni psichiche e psicofisiche.
Abbiamo, per questo, ritenuto che una conoscenza più accurata dello sviluppo psichico del soggetto esaminato, unitamente a quella degli eventi di vita vissuti, ci avrebbe consentito una valutazione psicopatologica più appropriata e forse una diversa sistemazione diagnostica.
Eravamo, altresì, consapevoli che non sarebbe stato sicuramente quel singolo caso a illuminarci su di una nuova ipotesi etiopatogenetica della pica. Contemporaneamente eravamo, però, motivati dal desiderio di comprendere meglio le ragioni, per cui ci appariva troppo restrittivo circoscrivere tale disturbo nell’ambito di una sindrome ossessiva.
CASO CLINICO
La paziente, giunta alla nostra osservazione, di nome MR, è una donna di 46 anni. Descrive un’infanzia “difficile” nell’ambito del suo contesto familiare, caratterizzato dalla conflittualità coniugale dei genitori. Evoca, tra l’altro, carenze affettive da parte della madre, impegnata a gestire il dissidio col marito e a fronteggiare la propria insoddisfazione coniugale. In età adolescenziale, MR si ritrova sola in casa col padre e un fratello, perché la madre lascia la famiglia per andare a convivere con un altro uomo. In questo clima familiare sempre più difficile, il fratello comincia a far uso di sostanze stupefacenti, aggravando ulteriormente le problematiche già esistenti. Dopo alcuni anni di tossicodipendenza, il fratello muore e di lì a poco anche il padre. Verso i trent’anni MR va a convivere con un compagno, conosciuto negli ultimi tempi. Dopo un aborto, una successiva gravidanza le consente di diventare mamma: nasce Giovanni, che resterà l’unico suo figlio.
In questi ultimi anni la convivenza con il suo partner è caratterizzata da momenti di incomprensione e da problematiche di natura economica.
MR descrive sin dall’adolescenza una tendenza all’ordine e alla pulizia, con lo sviluppo progressivo di veri e propri rituali ossessivi, associati a idee fobiche di sporcizia. Tende, quindi, a continui lavaggi della propria persona e dell’ambiente di casa, che le compromettono lo svolgimento di tutte le altre attività di vita quotidiana. Lo strofinamento delle pareti di casa, a scopo di pulizia, è tale da lasciar cadere frammenti di intonaco, che MR comincia a mangiare. Quest’ultimo evento comincia a manifestarsi negli ultimi due anni.
Proprio due anni fa, e per ben due volte a distanza di cinque mesi, MR che fino ad allora non si era mai sottoposta a visita specialistica, chiede e ottiene un ricovero volontario nel nostro Istituto. Sottoposta a terapia con paroxetina e lorazepam, in seguito a miglioramento sintomatologico, viene dimessa con suggerimento di proseguire la terapia a domicilio e di effettuare periodici controlli ambulatoriali. Ma MR tende a non seguire con costanza la terapia e, di fronte all’aggravarsi del quadro sintomatologico, decide di sottoporsi a visita nel nostro ambulatorio.
I primi colloqui clinici rivelano una riacutizzazione della sintomatologia ossessiva, che sembra essere il motivo dominante della richiesta di visita. Solo marginalmente MR parla della tendenza a mangiare calcinacci, senza alcuna particolare conflittualità o idea angosciosa di non riuscire a gestire tale comportamento. E anche quando mostra i denti, rovinati dalla masticazione di sostanze di una certa durezza, non sembra eccessivamente preoccupata. Qualche timore lo mostra, invece, quando descrive dei disturbi gastrici, sicuramente correlati all’ingestione di pietruzze. Perché si preoccupi di tale effetto prodotto dalle sostanze ingerite e non dei danni dentali, non è stato facile stabilirlo. Abbiamo pensato che il motivo sia da ascriversi alla consapevolezza che una lesione gastrica abbia un significato molto più grave per la salute, rispetto all’usura dei denti.
Abbiamo, poi, chiesto a MR cosa, secondo lei, la inducesse a ingerire calcinacci e che significato avesse per lei questo gesto.
La sua risposta è stata: “Quando mangio i calcinacci, è come se mi sentissi più forte e riesco ad affrontare meglio i problemi quotidiani”. Da questa risposta si evince l’assenza di qualsiasi conflittualità nei riguardi di questa pratica alimentare; trapela, anzi, una valutazione quasi positiva del proprio comportamento e una specie di compiacimento del proprio insolito rituale.
Dopo il primo colloquio, alla paziente viene prescritta una terapia farmacologica a base di: nortriptilina 70 mg, flufenazina 1,5 mg, bromazepam 4,5 mg, e le viene suggerito di sottoporsi a periodiche visite di controllo. Durante due successivi incontri (dopo i quali non ritorna più a visita) MR manifesta solo un lieve miglioramento della sintomatologia ansioso-depressiva associata al disturbo ossessivo, mentre rivela di essere riuscita a controllare l’ingestione di pietruzze e calcinacci, senza alcun problema conflittuale e in completa tranquillità, dopo essersi sottoposta anche a visita gastroenterologica. Durante i colloqui, MR appare principalmente polarizzata sui propri disturbi ossessivi, quasi trascurando il successo guadagnato nel controllo delle sue pulsioni alimentari. Parla di quest’ultimo argomento non in maniera spontanea, ma solo dopo sollecitazione dell’interlocutore. Il motivo per cui MR ha interrotto le visite di controllo non ci è stato possibile saperlo. Analogamente a quanto già precedentemente accaduto, il lieve miglioramento sintomatologico e fattori di pregiudizio culturale verso l’uso di psicofarmaci avranno condizionato la sospensione della terapia.
DISCUSSIONE
Una delle prime riflessioni che si possono sviluppare sul caso clinico in esame è la seguente: la paziente comincia a manifestare i primi sintomi di un disturbo fobico-ossessivo già in età adolescenziale. Solo negli ultimi due anni si strutturano disturbi del comportamento alimentare, assimilabili alla sindrome della pica. La discrepanza cronologica fra l’insorgenza delle due diverse sintomatologie già alimenta non pochi dubbi sull’ipotesi tesa ad assimilare la pica allo spettro del DOC. Da un punto di vista clinico, quando la paziente parlava della sua tendenza a mangiare calcinacci, non lo faceva in termini conflittuali (il conflitto – si sa – caratterizza il vissuto di un pensiero o di un rituale ossessivo). La sua distorta abitudine alimentare le procurava, invece, dei vantaggi: si sentiva più forte nell’affrontare le problematiche quotidiane e nel colmare quel vuoto affettivo determinato dall’allontanamento da casa della madre, dalla perdita del padre e del fratello e dall’insoddisfazione coniugale. L’ingestione di calcinacci potrebbe essere assimilata simbolicamente all’assunzione di calcio che, nell’ambito di un immaginario abbastanza frequente in certi ambiti culturali, fortifica e tonifica le ossa come l’intero organismo. Sembrava, tra l’altro, anche poco preoccupata del danno prodotto a carico dei denti, probabilmente in virtù dei vantaggi prodotti sul versante psichico appena descritti. In nessun caso MR ha manifestato una difficoltà di controllo della sua tendenza alimentare, come accade nel caso di un ossessivo che non riesce a frenare la coazione a ripetere. Quando ha cominciato a nutrire preoccupazioni per l’insorgenza di disturbi gastrici, da lei stessa messi in relazione con l’ingestione delle pietruzze, non ha esitato a interrompere la sua pratica alimentare, senza alcuna difficoltà. Ciò è avvenuto contemporaneamente all’avvio della terapia farmacologica da noi proposta. Abbiamo preso atto di questo risultato in occasione della visita di controllo, allorquando, come già detto, abbiamo riscontrato solo un lieve miglioramento della sintomatologia ansioso-depressiva, associata al disturbo ossessivo, che, invece, manteneva inalterata la sua configurazione clinica.
Secondo quanto la stessa MR ci ha riferito, il risultato raggiunto nel controllo delle pulsioni alimentari è stato raggiunto con un semplice atto di volontà, alimentato dalla consapevolezza dei disturbi gastrici prodotti. Ciò rende un’ulteriore testimonianza dell’indipendenza del picacismo dal quadro clinico dei disturbi ossessivi. Come si spiegherebbe altrimenti la capacità di controllo esercitata con successo su di una sintomatologia (quella alimentare) e non su di un’altra (quella costituita dai rituali ossessivi)? Anche volendo attribuire il successo del controllo alimentare all’effetto della terapia farmacologica, come spiegare il diverso risultato ottenuto su delle sintomatologie che dovrebbero appartenere allo stesso spettro di disturbi?
Un’ulteriore difficoltà nella sistemazione nosografica della pica la si deduce dall’età di insorgenza del disturbo nel caso clinico da noi osservato. Come lo si potrebbe, infatti, catalogare nell’ambito dei “disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza”, secondo il DSM-IV-TR, dal momento che esso si è manifestato per la prima volta in MR all’età di 44 anni?
Desta, inoltre, meraviglia la presenza del picacismo in una persona del tutto consapevole della sua aberrazione alimentare, persistente, tra l’altro, nonostante la consapevolezza del danno provocato alla dentizione. L’assenza di qualunque elemento coattivo fa assumere a questo comportamento alimentare una caratteristica inedita, suffragata dal significato simbolico dei calcinacci ingeriti, considerati fonte di energia e di forza. Quando l’entità del danno prodotto (i disturbi gastrici) ha superato il limite dei vantaggi immaginati, allora la volontà di interrompere quel comportamento si è potuta esprimere, senza grosse resistenze.
CONCLUSIONI
L’esame del caso clinico esposto richiama, innanzitutto, alla mente la frequente difficoltà di comprendere la complessità e la totalità di sviluppo di un disagio psichico individuale, all’interno di un sistema diagnostico, quale il DSM, troppo limitato all’interno dei suoi stessi parametri di riferimento. La struttura rigidamente statistica, il carattere ateorico (assenza di riferimento a qualsiasi modello teorico interpretativo), l’approccio esclusivamente descrittivo, che impedisce qualsiasi ricostruzione delle caratteristiche soggettive del paziente, delle sue esperienze di vita, della sua storia, lo “splitting” (spezzettamento diagnostico), l’isolamento del sintomo dalla struttura di personalità di base, problematiche emergenti di natura etica ed epistemologica, sono solo alcuni dei motivi alla base dei limiti e dei gravi rischi che corre una psichiatria che dovesse dimenticare i preziosi riferimenti a una psicopatologia, in grado di percorrere il cammino del singolo disagio/disturbo psichico. 
La non rara copresenza nello stesso paziente di un DOC e di una sindrome della pica ha indotto alcuni autori a includere questo disturbo alimentare nello spettro dei DOC.
La definizione di “spettro” in psichiatria è argomento recente, molto dibattuto e di cui non esiste neppure una definizione unica. Per brevità, possiamo riassumere due forme di concettualizzazione di spettro dei disturbi mentali.
1. Una concettualizzazione di tipo psicopatologico e/o fenomenico: due o più disturbi appartengono a un medesimo gruppo se condividono un nucleo psicopatologico comune, ovvero se presentano manifestazioni sintomatologiche analoghe.
2. Una concettualizzazione di tipo medico-genetico: due o più disturbi appartengono a un medesimo spettro se condividono un comune meccanismo eziopatogenetico.
Nessuna di queste condizioni è stata da noi riscontrata nel caso esaminato, per cui consideriamo inopportuno includere la sindrome della pica nello spettro dei DOC.

A giustificare la copresenza delle due diverse forme di disturbi possono contribuire alcune interpretazioni desunte dalla storia della paziente. Le carenze affettive, il vissuto di insicurezza e il bisogno di compenso sembrano generare una sintomatologia, espressa prevalentemente a livello orale e per di più con l’assunzione di sostanze insolite, simbolicamente considerate fonte di forza e di energia.
La concomitante difficoltà nella gestione del rapporto con la realtà esterna, alimentata da uno scarso vissuto di fiducia nel proprio Io, contribuisce, invece, allo sviluppo di una sintomatologia di compenso, tesa a guadagnare, attraverso il gesto ripetitivo, coatto un maggior controllo sulla realtà.
La sovrapposizione delle due sintomatologie potrebbe semplicemente ascriversi a una condizione di comorbilità, con riferimento alla presenza nello stesso soggetto di due diverse malattie o diagnosi, aventi una sintomatologia e un nucleo psicopatologico ben distinti tra di loro.
Dalle osservazioni fin qui riportate ci sembra più opportuno includere la sindrome della pica nell’ambito dei disturbi della condotta alimentare (in linea con la sistemazione nosografica del DSM-III-R e anche del DSM-5), caratterizzata, inoltre, dalla presenza di un elemento di aberrazione specifico, quello che riguarda, cioè, l’ingestione di sostanze non commestibili. Il caso clinico esaminato ci induce a considerare che, anche dietro un gesto paradossale (come quello del mangiare calcinacci), c’è un significato simbolico che lo spiega. Nostro compito non è solo quello di etichettare, bensì quello soprattutto di comprendere, perché è solo dal giusto capire che può nascere una risposta terapeutica appropriata ed efficace. Condividiamo l’opinione di quanti considerano la diagnosi della pica non applicabile a quei soggetti che presentano altre categorie di disturbi (ritardi mentali, schizofrenie, pazienti con lunghe storie di istituzionalizzazioni, deterioramenti mentali, bambini al di sotto dei 18-24 mesi, ecc.).
Rimaniamo perplessi di fronte alla considerazione di come, a volte, le forze o le ragioni che sostengono le creazioni simboliche riescano a sopraffare la coscienza del danno o del paradossale.
Pur in assenza di una risposta alla nostra perplessità, accettiamo il verdetto che non tutto ci è dato sapere, secondo le aspettative del momento e che il fascino della scienza è tutto racchiuso nella speranza di poter un giorno conoscere ciò che al momento attuale non ci è concesso sapere.
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