Farmacopsicologia clinica

Clinical pharmacopsychology

GIOVANNI A. FAVA, LAURA STACCINI, ROBERTO DELLE CHIAIE, CARLOTTA BELAISE, ELENA TOMBA
E-mail: giovanniandrea.fava@unibo.it
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna

RIASSUNTO. Lo scopo di questa rassegna critica è di illustrare le basi concettuali e applicative dell’area della psicologia clinica che si occupa degli effetti psicologici dei farmaci, la farmacopsicologia clinica. Viene tracciato lo sviluppo storico della disciplina (Kraepelin, Pichot, Kellner, Di Mascio, Shader, Bech), con una selezione dei contributi più rappresentativi in rapporto alle problematiche cliniche attuali. La farmacopsicologia clinica si occupa dell’applicazione di metodi clinimetrici per la valutazione degli effetti psicologici dei farmaci (incluse la tossicità comportamentale e la comorbilità iatrogena) e la loro interazione con ingredienti terapeutici specifici e non specifici. La farmacopsicologia clinica offre uno schema di riferimento per la comprensione di fenomeni clinici in ambito sia medico che psichiatrico. La ricerca in questa area dovrebbe ricevere alta priorità.

PAROLE CHIAVE: farmacopsicologia clinica, clinimetria, scale di valutazione, tossicità comportamentale, psicologia clinica, psicoterapia.


SUMMARY. The aim of this critical review was to outline emerging trends and perspectives of clinical pharmacopsychology, an area of clinical psychology that is concerned with the psychological effects of medications. The historical development of clinical pharmacopsychology (Kraepelin, Pichot, Kellner, Di Mascio, Shader, Bech) is outlined, with critical review of its most representative expressions and reference to current challenges of clinical research. Clinical pharmacopsychology is concerned with the application of clinimetric methods to the assessment of psychotropic effects of medications (including behavioral toxicity and iatrogenic comorbidity) and the interaction of drugs with specific and non-specific treatment ingredients. Clinical pharmacopsychology offers a unifying framework for the understanding of clinical phenomena in medical and psychiatric settings. Research in this area deserves high priority.

KEY WORDS: clinical pharmacopsychology, clinimetrics, rating scales, behavioral toxicity, clinical psychology, psychotherapy.

INTRODUZIONE
Il termine “farmacopsicologia” viene introdotto da Kraepelin per indicare lo studio degli effetti dei farmaci sul funzionamento psicologico1,2. Il concetto viene perfezionato da uno dei pionieri dell’uso degli psicofarmaci, Pierre Pichot, in un volume sulle misurazioni psicologiche in psicofarmacologia apparso nel 19743. Nell’introduzione Pichot sottolineava i nuovi bisogni che si andavano profilando sull’uso di strumenti per la misurazione degli effetti degli psicofarmaci. Questi strumenti dovevano avere caratteristiche diverse rispetto a quelli psicometrici tradizionali, con particolare riferimento alle loro capacità di registrare variazioni nello stato del paziente3.
Pichot faceva notare come le discipline di riferimento (psicologia e farmacologia) non fossero sufficienti a fornire una cornice adeguata per perfezionare gli strumenti di valutazione psicologica in farmacologia3. Quasi quattro decenni più tardi, Bech4 pubblica una monografia su quella che definisce “psicometria clinica”, illustrando le implicazioni e i costrutti teorici di questo approccio alla psicopatologia e alla psicofarmacologia. Il termine “psicometria clinica” non è però del tutto appropriato, in quanto la misurazione delle variabili psicologiche in ambito farmacologico non segue necessariamente le regole della psicometria classica, come Bech stesso riconosce4 e come avremo modo di illustrare. Di conseguenza, riteniamo che il termine kraepeliniano di “farmacopsicologia” rimanga preferibile. Illustreremo le basi concettuali e le aree applicative della “farmacopsicologia clinica”, intesa come l’approccio della psicologia clinica alla farmacologia. Questa area va differenziata dalla “farmaco-psicologia sperimentale”, intesa invece come l’approccio della psicologia sperimentale alla farmacologia. La farmacologia clinica deriva i suoi dati da studi osservazionali e controllati (soprattutto rispetto a placebo) su popolazioni cliniche. Quella sperimentale, invece, si basa su valutazioni prevalentemente di laboratorio, che non necessariamente coinvolgono popolazioni cliniche. La farmacopsicologia clinica si occupa dell’uso terapeutico dei farmaci e va quindi differenziata anche dallo studio degli effetti di sostanze assunte con altri scopi.
I METODI DI VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI PSICOLOGICI DEI FARMACI
Già negli anni ’70 Robert Kellner5 sottolinea la necessità, per registrare le modificazioni psicologiche in farmacologia, di elaborare strumenti che posseggano, oltre alle caratteristiche tradizionali di validità e attendibilità, anche la sensibilità, intesa come la capacità di discriminare tra farmaco attivo e placebo negli studi controllati a doppio cieco. La sensibilità di uno strumento diventa particolarmente importante quando le differenze non sono marcate e/o il numero di soggetti è relativamente basso 5. Uno strumento psicologico può essere valido e attendibile, ma se non possiede caratteristiche di sensibilità è di scarsa utilità in farmacopsicologia. Il problema è che la psicometria non si sviluppa in psicologia clinica, ma in quella attitudinale e del lavoro. Una caratteristica fondamentale della costruzione psicometrica è l’omogeneità delle componenti (items) di una scala. Questo requisito – verificabile attraverso metodi come l’analisi fattoriale e l’indice alpha di Cronbach – può però diventare un ostacolo qualora si vogliano misurare delle modificazioni nello stato psicologico6. In questo caso, infatti, la completezza delle aree psicologiche suscettibili di cambiamento è di gran lunga più importante di una loro eventuale omogeneità. Quest’ultima, anzi, recando con sé spesso una ridondanza di attribuzioni, può proprio oscurare le modificazioni che si vorrebbero rilevare6. Il quadro di riferimento, quindi, non può essere semplicemente psicometrico, ma deve essere ampliato a una prospettiva clinimetrica. Il termine “clinimetria” (clinimetrics) è stato introdotto da un epidemiologo americano, Alvan Feinstein, per indicare un’area di ricerca interdisciplinare finalizzata allo sviluppo e alla validazione delle valutazioni cliniche7,8. Raccogliendo contributi dalle scienze mediche, psicologiche e statistiche si occupa della misurazione degli aspetti clinici che non trovano una collocazione all’interno della consueta tassonomia clinica7,8. Tomba e Bech9 forniscono un’analisi dettagliata degli strumenti psicologici che soddisfano i requisiti clinimetrici.
L’orizzonte ristretto della valutazione in psicofarmacologia
In ambito psicofarmacologico è stata data priorità alla standardizzazione di strumenti psicologici che fornissero il gold standard per la differenziazione tra farmaco attivo e placebo. Per esempio, nell’ambito della depressione la scala di Hamilton è diventata il termine di riferimento; a un farmaco antidepressivo si richiede di evidenziare modificazioni in questa scala significativamente maggiori rispetto al placebo4,9. Questa standardizzazione deriva dalla necessità di poter comparare studi clinici diversi con caratteristiche diverse in Paesi diversi. È anche alla base del metodo meta-analitico per la valutazione complessiva dell’efficacia di un farmaco. Le agenzie preposte alla sua commercializzazione richiedono pertanto che la valutazione psicologica si basi su determinati strumenti standardizzati e su un numero limitato di sintomi considerati caratterizzanti la patologia esaminata 4. Il modello è quello relativo all’efficacia di un farmaco nel curare un particolare tipo di disturbo o malattia. Queste esigenze pragmatiche hanno notevolmente ristretto però il campo di studio degli effetti psicologici dei farmaci. Non sorprendentemente, il numero di studi randomizzati controllati che non è stato in grado di evidenziare differenze significative tra farmaco e placebo è di notevole entità in psicofarmacologia10.
La prospettiva farmacologica
Bech ha proposto il “triangolo farmacopsicometrico” che consiste nella misurazione degli effetti clinici desiderati, di quelli indesiderabili e/o collaterali e della qualità della vita del paziente4. Prospetta, quindi, la necessità di una valutazione molto più ampia di quella generalmente effettuata, che si riferisce di più all’approccio psicosomatico11 che non a quello psichiatrico tradizionale. D’altra parte è l’applicazione stessa dell’approccio clinimetrico alla psichiatria che porta a questi sviluppi12. Le variabili che possono essere prese in considerazione per la valutazione degli effetti desiderabili comprendono la sintomatologia subclinica11,12 e il dolore mentale13,14. Analogamente, la valutazione della qualità della vita richiede, oltre a strumenti specifici, anche una considerazione del benessere psicologico11,12, del comportamento di malattia15 e degli equilibri familiari11.
Gli stessi effetti collaterali sono funzionali alle metodiche di raccolta dei dati. Bisogna, per esempio, ricordare che negli anni ’80, a causa della scarsità di effetti collaterali riportati negli studi psicofarmacologici controllati, l’agenzia dei medicinali svedese (Medical Products Agency - MPA) promuove lo sviluppo di una scala di valutazione per gli effetti collaterali (Udvalg for Kliniske Undersøgelser - UKU) nettamente più completa rispetto agli strumenti esistenti16. Questa scala permette di rilevare effetti collaterali fino ad allora trascurati. Ma anche questa scala, tuttora la più completa4, può risultare inadeguata nel rilevare nuove problematiche, per esempio quelle relative alla sintomatologia che deriva dalla sospensione di farmaci antidepressivi serotoninergici. Sono stati pertanto sviluppati, nell’ambito degli studi clinici, strumenti specifici17 che, tuttavia, possono rivelarsi a loro volta inadeguati rispetto ai problemi relativi alla sospensione dei farmaci che emergono dallo studio dei siti web dei pazienti18. Analogamente, contrariamente a quanto si è portati a credere, le benzodiazepine sono generalmente superiori agli antidepressivi nel trattamento dei disturbi ansiosi19, sia dal punto di vista dell’efficacia sia da quello degli effetti collaterali, ma mancano studi clinici controllati con metodiche adeguate riconducibili al triangolo di Bech4 per la determinazione di una risposta differenziale a un tipo di terapia invece che un’altra20,21.
I CAMPI DI APPLICAZIONE
È interessante notare come, nella fase iniziale di sviluppo della psicofarmacologia, l’approccio farmacologico fosse molto più ampio di quanto non sia oggi. In un lavoro pubblicato nel 1968, Di Mascio e Shader22 sottolineano come vi sia la tendenza a selezionare, fra le molte azioni farmacologiche che un farmaco possiede, un effetto specifico da considerare terapeutico e a descrivere gli altri come effetti collaterali. In realtà, un effetto farmacologico (per es., sedazione) può essere sfavorevole per un paziente e desiderabile per un altro22. Non solo: può variare da uno stadio all’altro della stessa malattia nello stesso individuo. Per esempio, una riduzione della reattività ambientale durante un episodio depressivo maggiore può dare sollievo a un paziente, ma la stessa azione del farmaco in una fase residua della malattia depressiva può determinare apatia.
In questo senso la formulazione farmacopsicologica di Di Mascio e Shader22 supera il concetto di malattia come oggetto della cura farmacologica, sostituendolo con il conseguimento di obiettivi individuali secondo il modello biopsicosociale23. Inoltre, introduce la stadiazione nell’applicazione dei procedimenti terapeutici24,25, come avviene per quanto riguarda il modello sequenziale per la prevenzione della ricaduta nella depressione25,26.
Di Mascio e Shader22 definiscono il concetto di “tossicità comportamentale” per indicare le azioni del farmaco che interferiscono o limitano la capacità di funzionamento di una persona. Il concetto si riferisce sia a psicofarmaci sia a farmaci diretti ad altre condizioni mediche. Un esempio di tossicità comportamentale relativo agli antidepressivi riguarda la comparsa di attivazione comportamentale, ipomania o mania anche in soggetti con disturbi fino ad allora di tipo depressivo unipolare o ansioso 27,28. I sintomi depressivi associati al trattamento con interferone29 costituiscono una manifestazione di tossicità comportamentale con farmaci non primariamente diretti al sistema nervoso centrale. Fava, Tomba e Tossani10 hanno introdotto il termine di “comorbilità iatrogena” per indicare la persistenza di tossicità comportamentale anche dopo la sospensione del farmaco che l’ha provocata. Questa comorbilità può avere effetti sfavorevoli nel decorso, caratteristiche e modalità di risposta di un disturbo10 e deve essere considerata nel selezionare un nuovo tipo di trattamento30.
La farmacopsicologia clinica si propone di studiare queste modificazioni psicologiche nelle varie fasi della malattia e di elaborare strumenti adeguati per il riconoscimento dei disturbi che comporta.
INTERAZIONE TRA FARMACI E ALTRI INGREDIENTI SPECIFICI E NON SPECIFICI
Nel 1969 Uhlenhuth, Lipman e Covi31 esaminarono i modelli di interazione della farmacoterapia e psicoterapia nelle malattie mentali, delineando quattro modalità di interazione: 1) effetto additivo (l’effetto di due interventi combinati è pari alla somma degli effetti individuali); 2) potenziamento (l’effetto è superiore a quello dei due effetti individuali); 3) inibizione (l’effetto è minore della somma); 4) contraccambio (l’effetto è uguale a quello dell’intervento più potente). Gran parte degli studi che analizzano sono compatibili con l’ultima interazione, mentre pochi evidenziano un effetto additivo 31. Un’analisi più recente della letteratura32 rivela, però, che esistono anche interazioni di potenziamento (per es., il modello sequenziale nella depressione) e di inibizione (la combinazione di antidepressivi o benzodiazepine e terapia comportamentale). Scopo della farmacopsicologia clinica è quello di analizzare e studiare queste interazioni tra interventi specifici per un certo tipo di disturbo. Ma è anche quello di analizzare le interazioni tra farmacoterapia e ingredienti non specifici come aspettative, preferenze, motivazione, ambivalenza del paziente o atteggiamento del medico 33. Questi elementi sono spesso indicati con il termine generico e impreciso di effetto placebo34,35, ma, come dimostrato da una serie di ricerche paradigmatiche condotte negli anni ’60 con gli psicofarmaci33, possono essere oggetto di studio sperimentale con metodiche farmacopsicologiche. In questi casi richiedono la combinazione di strumenti clinimetrici di tipo sintomatologico con altri indici che valutino questi ingredienti non specifici33.
CONCLUSIONI
La farmacopsicologia clinica deriva dall’applicazione della psicologia clinica alla comprensione degli effetti farmacologici. Malgrado le sue caratteristiche siano state delineate con grande lucidità da pionieri della psicofarmacologia come Pierre Pichot3, Alberto Di Mascio e Richard Shader22 e Karl Rickels33 negli anni ’60 e ’70, è un settore che deve ancora trovare il suo pieno sviluppo e la sua collocazione concettuale. L’oggetto di studio della farmacopsicologia clinica è rappresentato dagli effetti psicologici dei farmaci in rapporto alle modalità di somministrazione e alle fasi dei disturbi. Per raggiungere questo obiettivo occorrono strumenti clinimetrici adeguati e disegni sperimentali in grado di differenziare le varie componenti della terapia 10.
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