L’analogia fra metodo archeologico e analitico

A cura di Eleonora Del Riccio
Sapienza Università di Roma
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Secondo alcune testimonianze, le camere sepolcrali del console Arrunzio e della sua famiglia erano state scoperte nel 1736 tra la Minerva Medica e la Porta Maggiore. Certamente, tale ritrovamento rientrava all’interno della grande stagione di scavi che aveva inaugurato a Roma il dischiudersi del XVIII secolo. Nel 1709, infatti, erano state scoperte le pitture murali delle
domus repubblicane sotto le Terme di Costantino, nel 1720 era stata la volta degli scavi di alcuni ambienti neroniani sul Palatino e, infine, nel 1724 era stata scoperta l’Aula Isiaca.
Il complesso era formato da due camere sotterranee dove erano stati ritrovati vari sarcofagi, urne preziose, cippi, are funerarie e vasi “lacrimatori”. Tuttavia, ciò che più aveva dovuto attrarre lo spettatore era il soffitto che riproduceva in stucco le sfumature del marmo. Anche Giovanni Battista Piranesi doveva aver apprezzato quello spettacolo poiché, subito dopo aver visitato il sepolcro, si era cimentato nella realizzazione di alcuni disegni che riportavano in forma di capriccio le decorazioni delle camere sepolcrali.
Le piccole scene che componevano il soffitto, estrapolate dal loro contesto, divennero materiale compositivo delle variazioni su tema incise a quattro mani con Jean Barbault. Per capire il grande salto di qualità compiuto da queste composizioni – apparentemente disordinate e prive di un vero criterio di assemblaggio – rispetto alla scienza antiquaria precedente, si dovrà richiamare il confronto con Pier Leone Ghezzi. Questo artista aveva riportato alcuni dettagli della decorazione in stucco della camera sepolcrale del console Arrunzio come se fossero ancora in opera sul soffitto, mentre Piranesi e Barbault avevano optato originalmente per una resa diversa e, nei limiti del possibile, più vicina alla realtà. Lì dove Ghezzi era stato più didascalico, Piranesi aveva sottolineato la natura di quelle vestigia: membra strappate dal tempo e, nonostante ciò, ancora vive. Immaginiamo, che l’atteggiamento del grande maestro veneto fosse quello di considerare tali vestigia come testimonianze più attendibili rispetto ai repertori testuali e la cui resa concreta nello spazio non poteva certo glissare su peculiarità fisiche come la scheggiatura del marmo o le crepe dello stucco 1.
Nel Capriccio qui proposto, il tondo centrale mostra una scena che sembrerebbe essere quella di un rapimento, e l’indicazione sull’immagine sembra suggerirne uno in particolare: quello che Borea compì ai danni di Orizia. Accanto sono appese diverse lucerne raffiguranti da sinistra: un delfino, un putto a caccia, dei rami simili a quelli d’alloro e un fiore geometrico. Ora, queste lucerne, che apparentemente sembrerebbero essere un dettaglio decorativo di poco conto, furono oggetto di alcuni disegni di Pietro Santi Bartoli e di una pubblicazione dello stesso autore edita nel 1691. La Fusconi asserisce che i disegni del Bartoli non sono quelli da cui furono tratte le stampe, ma piuttosto oggetti realizzati per un collezionista quale il principe Livio Odescalchi. La raccolta dei disegni del principe fu frequentata anche da Ghezzi il quale ebbe modo di ricopiare alcune delle lucerne disegnate da Bartoli con lo scopo di trarne a sua volta una pubblicazione, che però non vide mai la luce. Crediamo sia possibile allora che Piranesi abbia preso spunto da questi disegni di Bartoli, mediati da Ghezzi e oggi conservati nella Biblioteca Vaticana (Codice Ottoboniano Latino 3109 e 3102) 2.
Oltre alle lucerne, ai cippi mangiati dal tempo e alle pietre che hanno perso la loro originaria collocazione, figurano i bassorilievi di due sacerdotesse. Quella a sinistra in ginocchio non compare sul soffitto, ma nella descrizione è identificata come una delle figure dipinte sulle pareti della camera sepolcrale. Quella di destra, direttamente importata dal soffitto, sembra tenere in mano un frutto o una pianta e nella parte inferiore del corpo, soprattutto osservandone il movimento dei piedi, sembra richiamare la Gradiva freudiana del museo Pio Clementino.
Questo accenno a Freud permette di creare un ponte tra le rovine archeologiche, intese come resti delle antiche vestigia montati in un Capriccio d’autore come quello di Piranesi e Barbault, e la metafora delle rovine usata da Freud per la teorizzazione della scienza psicoanalitica3,4. Così scrive il pensatore viennese in uno dei suoi primi lavori: «Supponiamo che un esploratore giunga in una regione poco nota, in cui una zona archeologica, con rovine di mura, frammenti di colonne, lapidi dalle iscrizioni confuse e illeggibili, abbia suscitato il suo interesse [...] può aver portato con sé zappe, pale e vanghe, può munire di tali strumenti gli abitanti del luogo, rimuovere con loro dalla zona archeologica le rovine ivi giacenti e scoprire, dai resti visibili, altri pezzi sepolti. Se il suo lavoro sarà coronato da successo, i reperti archeologici si spiegheranno da soli: i resti di mura si dimostreranno appartenenti al periplo di un palazzo o di una camera del tesoro; dalle rovine delle colonne sarà possibile ricostruire un tempio, mentre le numerose iscrizioni scoperte, bilingui nei casi più fortunati, riveleranno un alfabeto e una lingua e, una volta decifrate e tradotte, permetteranno di ritrarre un’insperata conoscenza degli avvenimenti del passato, avvenimenti in memoria dei quali quei monumenti erano stati eretti» 5.
Resti, tracce, frammenti, rovine, indizi che consentono di costruire o ricostruire la storia. La forza delle rovine è dunque anche nella memoria che esse custodiscono. Non si può non ricordare a questo proposito uno degli ultimi scritti di Freud in cui, riprendendo il tema dell’analogia del lavoro dell’analista con quello dell’archeologo, scrive: «L’analista deve scoprire, o per essere più esatti costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste […]. Il suo lavoro di costruzione o, se si preferisce, di ricostruzione, rivela un’ampia concordanza con quello dell’archeologo che dissotterra una città distrutta e sepolta o un antico edificio. I due lavori sarebbero in verità identici se non fosse che l’analista opera in condizioni migliori, dispone di un materiale ausiliario più cospicuo sia perché si occupa di qualche cosa che è ancora in vita e non di un oggetto distrutto […]. Ma proprio come l’archeologo ricostruisce i muri dell’edificio dai ruderi che si sono conservati, determina la posizione delle colonne dalle cavità del terreno, e ristabilisce le decorazioni e i dipinti murali di un tempo dai resti trovati fra le rovine, così procede l’analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordi, dalle associazioni e dalle attive manifestazioni dell’analizzato» 6.
bibliografia
1. Ficacci L. Piranesi: the Complete Etchings (vol. I e II). Colonia: Taschen, 2000.
2. Fusconi G. Da Bartoli a Piranesi: spigolature dai Codici Ottoboniani Latini della Raccolta Ghezzi. Roma: L’Erma di Bretschneider, 1994.
3. Barbanera M, Capodiferro A (a cura di). La forza delle rovine. Catalogo della mostra, Roma, Palazzo Altemps 8 ottobre 2015-31 gennaio 2016. Milano: Electa, 2015.
4. Iannitelli A, Barbanera M, Capodiferro A (a cura di). La mostra “La forza delle rovine”. Psiche Rivista di cultura psicanalitica 2016; 3: (in press).
5. Freud S (1896). Etiologia dell’isteria. OSF. Torino: Bollati Boringhieri, 1968.
6. Freud S (1937). Costruzioni nell’analisi. Torino: Bollati Boringhieri, 2000.