Esperienze di switch a cariprazina in pazienti affetti da schizofrenia con ricorrenze

Cariprazine switch experiences in patients with recurrent schizophrenia

ANTONIO VITA 1,2,3 , ANNA CERASO 2 , PAOLO VALSECCHI 1,2,3
E-mail: antonio.vita@unibs.it

1 Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali, Università di Brescia
2 Unità Universitaria di Psichiatria, Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università di Brescia
3 Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze, ASST Spedali Civili di Brescia

RIASSUNTO. Nel trattamento a lungo termine dei pazienti affetti da schizofrenia, il problema delle ricadute di malattia è di fondamentale rilevanza clinica e tuttora dibattuto. Una possibile strategia di intervento, in caso di riacutizzazione, è quella dello switch da un farmaco antipsicotico a un altro. Sarebbe utile, in questo senso, avere a disposizione molecole in grado di garantire uno stato di remissione clinica persistente nel tempo. Fra queste è possibile senz’altro considerare cariprazina, un farmaco di recente introduzione, dotato di un profilo d’azione unico rispetto agli altri antipsicotici, sia tipici che atipici.

PAROLE CHIAVE: ricadute, fattore di rischio, prevenzione, management, switch, cariprazina.


SUMMARY. In the long-term treatment of patients with schizophrenia, the problem of disease relapse is of crucial clinical relevance and still debated. In the event of an exacerbation, possible intervention strategy is that of switching from one antipsychotic drug to another. In this sense, it would be useful to have molecules that may to guarantee a state of clinical remission persisting over time. Among these, it is certainly possible to consider cariprazine, a recently introduced drug, with a profile of unique action compared to other antipsychotics.

KEY WORDS: recurrence, risk factor, prevention, management, switch utility, cariprazine.

INTRODUZIONE
La schizofrenia è un disturbo cronico e altamente invalidante. L’outcome clinico risente del fatto che la maggior parte dei pazienti sperimenti nel tempo ricadute di malattia, che molto spesso impediscono un ritorno al livello di funzionamento globale precedente. Ricadute frequenti possono esitare in ulteriori riacutizzazioni, nonché alterare la neurobiologia del disturbo (per es., inducendo alterazioni strutturali o della connettività neurale tramite meccanismi di neurotossicità); è stato pertanto ipotizzato un coinvolgimento delle ricadute di malattia nel determinare eventuale resistenza al trattamento 1,2 . L’evidenza in merito all’associazione fra riacutizzazioni di malattia e peggiore outcome clinico è più che solida: le riesacerbazioni del quadro psicotico sembrano associarsi, infatti, a un maggiore rischio di perdita dell’autonomia funzionale, di episodi di violenza, di compromissione delle interazioni sociali e del funzionamento lavorativo, di disgregazione della rete sociale di supporto, di sofferenza dei caregiver e di discriminazione sociale e stigma interiorizzato, con conseguente incremento dei costi associati alla patologia 3 .
È stato ampiamente dimostrato che il rischio di riacutizzazioni è significativamente aumentato in caso di sospensione della terapia di mantenimento, anche dopo un singolo episodio psicotico. A questo proposito, una recente review condotta su un campione di 209 soggetti al primo episodio di psicosi (su base non affettiva) ha evidenziato un tasso di ricaduta compreso fra il 57% e il 91% a un anno dalla sospensione del trattamento (tasso medio di ricaduta del 77%) 4 .
FATTORI DI RISCHIO PER RICADUTE
Secondo la letteratura disponibile, il rischio di ricaduta di malattia può essere influenzato da molteplici fattori. Una review sistematica con meta-analisi ha mostrato che, dopo un primo episodio di psicosi, la non aderenza al trattamento, l’uso di sostanze stupefacenti, l’attitudine negativa del caregiver e un peggiore livello di funzionamento premorboso possono incrementare il rischio di ricadute rispettivamente di 4, 3, 2,3 e 2,2 volte 5 . Uno studio di follow-up della durata di 5 anni ha evidenziato un aumento fino a 5 volte del rischio di ricadute dopo un primo episodio di psicosi in caso di interruzione della terapia 6 . Nello stesso studio è stato osservato, fra i pazienti che avevano sospeso la terapia, un tasso di prima ricaduta del 81,9%, che si manteneva più o meno costante in caso di ricaduta successiva (78%) e dopo ulteriori quattro anni dall’episodio precedente (86,2%) 6 . Elementi chiave tali da condizionare del tutto o parzialmente l’aderenza al trattamento sono: da un lato, l’attitudine dei pazienti verso la terapia, le pregresse esperienze con i farmaci e la consapevolezza di malattia 7 , dall’altro, soprattutto, il profilo di tollerabilità delle molecole prescritte 8 . La non completa aderenza alla terapia non è solamente un riconosciuto fattore di rischio per ricaduta, ma sembra anche influenzare negativamente l’esito clinico: si associa infatti a un aumento delle ospedalizzazioni, a un prolungamento del tempo di raggiungimento della remissione e a un peggioramento della qualità di vita 9,10 . I pazienti che non assumono regolarmente la terapia psicofarmacologica tendono inoltre a manifestare più frequentemente condotte di aggressività, a tentare il suicidio, a essere arrestati e ad abusare di alcolici/sostanze stupefacenti 9,10 .
Oltre alla ridotta compliance terapeutica, altri noti fattori di rischio clinicamente significativi in termini di riacutizzazioni sono: maggiore durata di psicosi non trattata, sintomi di maggiore gravità al baseline, terapia con antipsicotici long-acting a maggior dosaggio, necessità di combinare più molecole psicoattive nello schema terapeutico, genere maschile 11 , peggiore qualità della vita 12 , abuso concomitante di stupefacenti, storia di ripetute ricadute cliniche/ospedalizzazioni 13 e maggiore durata di malattia 2 . Quest’ultima sembra mantenere un ruolo significativo come predittore di ricaduta anche in un contesto di sicura e stabilizzata assunzione della terapia antipsicotica 2 .
PREVENZIONE DELLE RICADUTE
L’importanza della terapia di mantenimento con antipsicotici è stata ampiamente documentata in letteratura, nonostante alcune voci controverse che ne scoraggerebbero l’utilizzo a lungo termine 14 . A oggi, le strategie di prevenzione delle ricadute si basano essenzialmente sull’assunzione continuativa di farmaci antipsicotici, applicando contestualmente il più possibile interventi di matrice psicosociale 14 .
L’efficacia preventiva dei farmaci antipsicotici è stata più volte dimostrata, in particolare per quanto riguarda il follow-up a breve/medio termine (1-2 anni) 14,15 .
Una review comprendente 66 studi (4365 partecipanti), pubblicati fra il 1958 e il 1993, ha descritto un tasso cumulativo di ricaduta del 53% nei pazienti che avevano sospeso la terapia antipsicotica, ridotto al 16% in caso di terapia di mantenimento, a un tempo medio di follow-up di 9,7 mesi 16 .
La più recente meta-analisi di Leucht et al. 15 , condotta con metodologia sistematica su 65 trial randomizzati controllati (6493 partecipanti), pubblicati fra il 1959 e il 2011, ha confermato in modo solido la superiorità della terapia antipsicotica di mantenimento rispetto al placebo nel prevenire le ricadute di malattia: il tasso di riacutizzazione descritto nell’arco di 7-12 mesi era del 64% nei pazienti che avevano sospeso la terapia, rispetto al 27% nei pazienti trattati con antipsicotici 15 . La terapia di mantenimento si dimostrava anche più efficace, rispetto al placebo, nel ridurre il rischio di ospedalizzazione, nel promuovere un miglioramento clinico globale e della qualità di vita e nel limitare il tasso di mortalità per ogni causa 15 . La durata della terapia con antipsicotici e del periodo di stabilità clinica prima della randomizzazione non rivelava alcun impatto sulla riduzione del rischio di ricaduta 15 . La differenza di efficacia preventiva fra antipsicotici e placebo sembrava ridursi nel tempo (all’aumentare della durata del follow-up) 15,17 ; gli autori hanno tuttavia spiegato tale riscontro attribuendolo almeno in parte ad artefatti metodologici, legati all’estrazione e all’interpretazione di studi clinici con disegno a lungo termine 17 .
I dati relativi alla prevenzione farmacologica delle ricadute per un arco tempo maggiore di 1-2 anni sono purtroppo poco rappresentati in letteratura, spesso ambigui e derivanti da tipologie di ricerca meno attendibili (studi non randomizzati, studi di coorte non controllati, studi di follow-up naturalistico a lungo termine, esposti ad alto rischio di fattori confondenti) 14 . Alla luce di ciò, è difficile trarre delle conclusioni definitive sulla durata ideale della terapia antipsicotica di mantenimento dopo la risoluzione di un episodio di psicosi 18 , e le attuali linee guida rimangono nebulose rispetto alle raccomandazioni nel lungo termine 14 .
Le ragioni che spingono molti clinici a considerare l’idea di ridurre o sospendere gli antipsicotici nel tempo sono principalmente legate agli effetti collaterali della terapia e al loro impatto sulla quotidianità, oltre al fatto che circa il 20% dei pazienti non presenta ricadute dopo il primo episodio psicotico 17 . Effettivamente, non sono ancora stati dimostrati in modo univoco predittori sufficientemente accurati per identificare correttamente tali soggetti 14 .
Nessun predittore clinico di ricorrenza imminente è sufficientemente attendibile, dal momento che la ricadute tendono a verificarsi in modo repentino, a differenza di quanto accade generalmente per il primo episodio psicotico 3 : le strategie di trattamento che si basano sulla riduzione/sospensione della terapia antipsicotica e sulla reintroduzione immediata della stessa ai primi segni di ricaduta si sono dimostrate inefficaci 19 . Infatti, va ricordato che 1 paziente su 6 non risponde più alla terapia precedente una volta che è stata reintrodotta dopo una ricaduta 20 . Un altro studio ha confermato un fallimento del trattamento in 5 individui (16%) su un campione di 33 soggetti che avevano in precedenza risposto adeguatamente alla terapia 21 .
Diversi trial clinici hanno dimostrato solo piccole differenze in termini di efficacia clinica tra i diversi antipsicotici disponibili, mentre gli eventi avversi e il profilo di tollerabilità tendono a essere più specifici e dirimenti nella scelta della terapia più adeguata per un paziente: l’efficacia degli antipsicotici dev’essere sempre interpretata tenendo conto della tollerabilità 22 .
D’altro canto, l’eterogeneità individuale, in particolare rispetto al decorso clinico e alla risposta terapeutica, è tuttora un aspetto problematico nel trattamento a lungo termine della schizofrenia.
Una consigliabile strategia da seguire potrebbe essere quella di proseguire la terapia con particolare regolarità soprattutto in caso di pazienti con molteplici ricadute e riesaminare frequentemente il rapporto rischi-benefici legato alla terapia 14 . L’opzione di uno switch a un antipsicotico differente può essere valutata in caso di inefficacia o di effetti collaterali non tollerabili: in tale contesto, una molecola dotata di un meccanismo d’azione diverso e al contempo ben tollerata, come cariprazina, sarebbe una valida soluzione.
Evidenze derivanti da studi naturalistici indicano che fra il 30% e il 60% dei pazienti ha una insufficiente aderenza al trattamento 23 , e questo limita l’efficacia della terapia di mantenimento. Nei pazienti con frequenti ricadute e non aderenza alla terapia orale, i farmaci depot/long-acting sono considerati superiori alle formulazioni orali nel ridurre il tasso di ricadute, dal momento che possiedono una cinetica tale da garantire una copertura farmacologica migliore anche dopo la sospensione, e la modalità di somministrazione assicura l’effettiva assunzione della terapia. In ogni caso, alcuni autori hanno valutato se le molecole di terza generazione con un’emivita più lunga (come cariprazina) possano rivelarsi utili nel mantenimento della terapia e hanno ottenuto una interessante conferma della loro ipotesi 23 .
CARATTERISTICHE PECULIARI
DI CARIPRAZINA NELLA TERAPIA
DI MANTENIMENTO
Un trial clinico randomizzato controllato (NCT01412060) sulla terapia di mantenimento con cariprazina nella schizofrenia ha dimostrato una significativa superiorità di cariprazina rispetto al placebo nel prevenire e ritardare le ricadute di malattia, con un’incidenza di riacutizzazioni rispettivamente del 24,8% e del 47,5% 24 . Un’analisi post hoc dei dati dello studio ha evidenziato che la terapia con cariprazina favoriva, rispetto al placebo, il raggiungimento dello stadio di remissione clinica, una maggiore durata dello stesso e una più elevata probabilità di ottenere una remissione stabile per almeno 6 mesi ( Tabella 1 ) 25 . Una supplementare analisi post hoc dei dati relativi alla fase di estensione open-label, raggruppati con quelli derivanti da un altro lavoro 26 , ha confermato che nel lungo termine cariprazina viene ben tollerata e ha un profilo altamente favorevole in termini di tollerabilità e sicurezza 22 . Un ulteriore studio ha confrontato i tassi di ricaduta dopo sospensione di cariprazina (registrati nel trial sopra descritto) con quelli, riportati in altri studi, successivi alla sospensione di diversi antipsicotici orali di seconda generazione 23 . Alla luce della maggiore emivita di cariprazina e dei suoi metaboliti e della conseguente occupazione protratta dei recettori dopaminergici (fino a 4 settimane), a un mese dall’interruzione della terapia l’incidenza di ricadute era da 2 a 7 volte minore nei pazienti che avevano precedentemente assunto cariprazina 23 . Ne consegue l’ipotesi che questa molecola possa rappresentare un concreto vantaggio laddove l’aderenza dei pazienti al trattamento sia incostante.



Il profilo farmacodinamico e farmacocinetico di cariprazina, unitamente all’efficacia clinica documentata in numerosi trial
24,25,27,28 , permette di ritenere che la molecola sia una valida opzione terapeutica in pazienti affetti da schizofrenia con ricorrenze.
CASO CLINICO 1
M.F. è una ragazza di 31 anni affetta da schizofrenia. L’esordio della malattia risale a due anni fa quando M.F. cominciò a manifestare deliri mistici, megalomanici ed erotomanici. La paziente era convinta che un facoltoso uomo d’affari, conosciuto in un ristorante durante un soggiorno a Parigi, fosse innamorato di lei. Questo uomo era un seguace del Dalai Lama e la paziente si era convinta di avere una missione per conto di Buddha, di cui sentiva la voce che la esortava a portare la pace nel mondo. Perciò cominciò a frequentare centri dediti al buddhismo. Queste idee deliranti erano sostenute su base interpretativa: aveva visto un furgone nero transitare ripetutamente di fronte al suo negozio di fiori e si era convinta che all’interno vi fossero dei dipendenti del facoltoso uomo conosciuto a Parigi, che la proteggevano per l’importanza della sua missione salvifica.
Venne iniziata una terapia con olanzapina 20 mg/die e la paziente presentò una buona risposta clinica ma in 4 mesi aumentò di 8 kg e si autosospese la terapia con conseguente ricaduta. Venne quindi iniziata una terapia con risperidone 9 mg/die ma la paziente sviluppò importanti sintomi negativi con apatia e ritiro sociale. Si optò per un cross-taper-switch (graduale introduzione di cariprazina a dosi crescenti con graduale riduzione di risperidone): si riduceva pertanto la posologia di risperidone di 3 mg ogni 3 giorni fino a completa sospensione, e contestualmente si introduceva cariprazina, con incremento del dosaggio di 1,5 mg ogni 3 giorni, fino a 4,5 mg/die. Dopo circa 3 settimane si è assistito a un importante ridimensionamento delle tematiche deliranti e scomparsa delle allucinazioni uditive. Nell’arco di tre mesi si è osservato anche un significativo miglioramento della sintomatologia negativa con soggettivo miglioramento della qualità di vita.
Da notare in questo caso il fatto che alcune ricadute cliniche derivano dalla scarsa tollerabilità dell’antipsicotico e dalla sua conseguente assunzione irregolare con perdita di efficacia e l’importanza dunque di disporre di un farmaco che assicuri efficacia clinica e buona tollerabilità per garantirne la effectiveness che consente il mantenimento ottimale dello stato clinico.

CASO CLINICO 2
B.S. è una ragazza di 27 anni. Da circa 8 mesi ha cominciato a manifestare deliri persecutori sostenuti da allucinazioni cenestesiche. È convinta che qualcuno, che non sa identificare, le trasmetta onde elettromagnetiche attraverso gli elettrodomestici e che, in seguito a un intervento con gamma knife  per un meningioma, qualcuno le avrebbe inserito nel cervello un microchip. Per questo motivo sentiva il suo corpo attraversato da correnti. Nei mesi successivi, i deliri sono divenuti sempre più pervasivi e quando la paziente comincia a manifestare anomalie comportamentali come coprire gli elettrodomestici con coperte e avvolgersi i piedi con la carta stagnola, i familiari la accompagnano in ospedale e la paziente viene ricoverata nel reparto di psichiatria. Viene impostata una terapia con paliperidone 12 mg/die e dopo 3 settimane la paziente sembra avere una buona risposta clinica e, per questo, si decide di somministrare paliperidone palmitato a 1 mese. Tuttavia, dopo la dimissione la paziente presenta una inaspettata ricaduta e si presenta a una visita di controllo dopo due settimane dalla somministrazione della terapia long-acting in stato di franco scompenso psicotico. Per questo motivo si decide di introdurre cariprazina in modo graduale partendo da un dosaggio di 1,5 mg/die, incrementato di 1,5 mg ogni 3 giorni fino a 6 mg/die, con significativo miglioramento dei deliri persecutori e scomparsa delle allucinazioni cenestesiche. Al termine dell’attività farmacologica di paliperidone palmitato, la sua somministrazione è stata sospesa. Anche a distanza di sei mesi la paziente mantiene uno stato di remissione clinica.
Da notare in questo caso il buon andamento clinico anche dopo switch da antipsicotico long-acting, situazione che spesso pone non pochi problemi di gestione allo psichiatra che spesso opta, pur in assenza di evidenze di efficacia e appropriatezza e maggior rischio di effetti collaterali, per il mantenimento del farmaco long-acting con aggiunta di un secondo antipsicotico.
CONCLUSIONI
Le caratteristiche farmacodinamiche e farmacocinetiche di cariprazina la rendono una molecola efficace nel breve e nel lungo termine, assai ben tollerata, e con persistente azione clinica. Questo giustifica le evidenze cliniche di efficacia anche in pazienti con ricorrenze sintomatiche in corso di altri trattamenti antipsicotici, siano esse derivanti da insufficiente controllo dei sintomi, discontinuazione o assunzione parziale del farmaco per la comparsa di effetti collaterali. Ciò rende cariprazina un farmaco di particolare interesse nel real world, ove coniugare efficacia, tollerabilità e persistenza degli effetti garantisce la migliore continuità di cura della persona affetta da disturbo schizofrenico.

Conflitto di interessi : gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.
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