Narcisismo contemporaneo e sviluppi paranoidei


Contemporary narcissism and paranoid developments


TOMMASO ACCINNI1, FRANCESCO GHEZZI1, FABIO DI FABIO1*

*E-mail: fabiodifa@gmail.com


1Dipartimento di Neuroscienze Umane, Sapienza Università di Roma


RIASSUNTO. Viene proposta una lettura di natura psicopatologica delle ricadute che negli ultimi decenni le nuove forme di produzione e valorizzazione e le contemporanee trasformazioni socio-culturali hanno comportato nei confronti tanto delle modalità relazionali quanto del mondo psichico individuale. La presente riflessione scaturisce dall’analisi della società contemporanea, permeata dalla dimensione della prestazione e connotata dagli imperativi del profitto e della valorizzazione perpetua. Nuove forme di disagio abitano la “società della prestazione”, a partire da un’atmosfera di colpa e indegnità relativa alla prestazione fallita. Tale sistema di valori sembra essere stato interiorizzato dal senso comune, influenzando sempre più profondamente i processi identitari. Nuove forme di sofferenza mentale sembrano originare dall’instabilità di dinamiche narcisistiche inerenti a un ideale dell’Io sempre più fragile e precario e derivate dal dissolvimento di modelli culturali ben definiti. La crisi e la ferita narcisistiche, relative ai vissuti di vergogna e angoscia nell’esperienza del fallimento, sembrerebbero tuttavia, in specifiche circostanze, lasciare il posto a ulteriori forme psicopatologiche. Tensioni intrapsichiche e contemporanee trasformazioni socio-culturali condurrebbero a una diversa estrinsecazione di sviluppi paranoidei, transitori e mai strutturati, in cui l’esperienza psicotica possa fungere da processo riequilibrante e compensatorio di quelle funzioni psichiche messe a dura prova dall’angoscia identitaria e dall’esperienza del fallimento, tipiche dell’era prestazionale.


PAROLE CHIAVE: narcisismo, psicosi, paranoia, società, prestazione, disturbo mentale.



SUMMARY. Starting from a psychopathological approach, the current paper sought to describe psychological and relational consequences that in last decades derived from new valorization and productive processes on the basis of substantial socio-cultural transformations. This reasoning arises from the analysis of contemporary society in regard to which the ideology of performance has assumed a prominent role. The society of performance is subservient to the imperatives of profit and valorization which have been internalized by common sense deeply influencing identity related processes. In such a society, specific forms of mental sufferance regarding the experiences of failure, unworthiness and guilt may show up, being related to the potential failure of performances. These transformations show a significant effect on narcissistic dynamics which nowadays seem derived from a more fragile self-ideality. Narcissistic wounds, with their experiences of failure and worthlessness, are not the only psychopathological developments that may occur in this frame. What we sought to describe in the current paper is the possibility of different paranoid experiences arising from intrapsychic tensions in their turn related to the abovementioned socio-cultural transformations. The aim of this contribution was to describe specific transient paranoid developments that never appear structured as true delusions: these psychotic experiences may act as a rebalancing process, somehow compensatory, in regard to such psychological functions that have been stressed by identitary anguish and experiences of failure and worthlessness.


KEY WORDS: narcissism, psychosis, paranoia, society, performance, mental illness.

INTRODUZIONE

Il presente scritto nasce dal desiderio di una riflessione di carattere psicopatologico volta ad analizzare le ricadute che negli ultimi decenni nuove forme di produzione e valorizzazione e contemporanee trasformazioni socio-culturali hanno potuto determinare tanto sulle relazioni umane quanto sul mondo psichico individuale. In particolare si è tentato di delineare l’eventualità di una diversa estrinsecazione degli sviluppi paranoidei a partire da tensioni intrapsichiche relative alle trasformazioni di cui sopra, tale da condizionare le istanze identitarie sottese a una dimensione narcisistica sempre più disorientata e depauperata di ogni stabile idealità. Si tratta del tentativo di ragionare sulle profonde e sostanziali linee di interdipendenza tra livelli di organizzazione socio-culturale e forme psicopatologiche: analizzare e approfondire le prime potrebbe adiuvare a cogliere più profondamente e sensibilmente le seconde, senza mai perdere di vista l’esperienza soggettiva.

DALLA PRESTAZIONE ALL’AUTOVALUTAZIONE

La globalizzazione economica e dei mercati ha definitivamente prospettato una vigorosa interdipendenza delle direzioni di consumo e di pari passo dei processi identitari. In modo sempre più evidente le istanze di autorappresentazione, ossia quei dispositivi metariflessivi relativi all’autocoscienza1,2, sembrano mutate a partire da un contesto più composito e complesso: interessanti proposte circa la stretta interconnessione tra globalizzazione dei mercati e degli scambi e forme di sofferenza mentale sono state avanzate in epoca recente3,4, sebbene già Marx profeticamente avesse sottolineato la stretta connessione tra globalizzazione, alienazione dell’individuo e società della produzione capitalistica, o ancora Deleuze e Guattari nell’Antiedipo5 prefiguravano un legame tra capitalismo e paranoia. Uno spunto di rilievo è quello avanzato da Mark Fisher con la proposta di un “realismo capitalista”6 che supporrebbe processi di interiorizzazione relativi agli imperativi di profitto tipici dell’epoca contemporanea. Una simile perfusione delle coscienze individuali da parte di specifici schemi di valorizzazione avrebbe inoltre contribuito al depotenziamento di qualsivoglia sviluppo antagonista o prospettiva alternativa, solidale e comunitaria, relativi a identità forti di appartenenza, dal campo dei dispositivi pre-riflessivi7 (intendendo qui quelle dinamiche di interazione con il mondo che precedono i processi coscienti di rappresentazione). Un tale assetto sembrerebbe precedere l’adesione a forme culturali dialetticamente organizzate e concepite come escludenti e alternative. Organizzazioni vigorosamente connotanti e definitorie proprio in quanto recanti forme simboliche e codici valoriali. Quello che sembrerebbe dispiegarsi nella società contemporanea sarebbe un mutamento (preconizzato da decenni di smantellamento costante di politiche pubbliche socio-assistenziali) che a partire da una “società della prestazione”8 qual era quella descritta da Marcuse, imperniata sulla centralità del rendimento lavorativo e del profitto, sembrerebbe derivare una “società della valutazione”.

Nell’alveo di una lettura strutturale delle dinamiche sociali, le attuali forme di soggettivazione potrebbero essere rappresentate a partire dall’analisi di un sistema in cui il moderno individualismo identitario, prestazionale e progettuale, sembri aver compiuto la sua trasformazione definitiva. In tale ottica, avrebbero fatto la loro comparsa nuovi connotati della funzione collettiva, sempre più melliflua e fluida, tali per cui ogni elemento soggettivo strutturerebbe una relazione di corrispondenza instabile e cangiante nei riguardi del codominio collettivo, secondo una linea di associazione non univoca. In particolare, tale funzione di corrispondenza e rispecchiamento sembrerebbe assoggettata a un processo di costante (ri)valutazione, di perpetua riconferma, implementato su piani stratificati continuativamente presenti tanto nel senso comune quanto nella coscienza individuale. Quello che sembra dispiegarsi nei tempi attuali è un dominio collettivo di rappresentazione identitaria massificata e globalizzata, proteiforme in relazione alla velocità di diffusione dell’informazione e dei big data9, in cui l’autorappresentazione sia, anche nella presunta alternatività, infallibile conferma della propria conformità all’insieme dei sensi collettivi.

L’individualismo è approdato, o è tornato, al punto di partenza nel corso del suo viaggio incerto e claudicante lungo il cammino insidioso della post-modernità, in occasione del quale ha preso confidenza con il carattere prescindibile delle grandi costruzioni ideologiche novecentesche10. Le dimensioni individuali restano propaggini relative di una matrice collettiva che oggi tuttavia appare di difficile inquadramento, instabile e in costante aggiornamento, relegando a uno spazio sempre più angusto qualsiasi forma di identità storica e pertanto attribuendo a ogni istanza di soggettivazione un carattere di estemporaneità. Stereotipizzazioni di ogni immaginabile articolazione collettiva e di ogni forma interattiva. Si esplicherebbero sovrastrutture globali di massificazione, linee evolutive pre-ordinate e serialmente confezionate che assumono la forma di inevitabili precetti culturali6. Quest’ultimi, a loro volta hanno determinato l’interiorizzazione di specifici modelli di sviluppo e stabili, quelle sì, forme produttive di natura capitalistico-finanziaria.

L’individuazione che si fa identificazione, l’Io che ripete costantemente e quotidianamente il meccanismo autopoietico e autoriproduttivo in cui il singolo è sempre e solo funzione di una matrice collettiva di riferimento, purtuttavia ineffabile e mai così perfondente. L’identificazione con una funzione collettiva informe e confusa impone la (ri)valutazione della propria efficienza produttiva, anelando a un processo di autoassolvimento formale e relazionale, che testimoni l’avvenuta interiorizzazione di specifici connotati antropologici. Non c’è più posto, come era stato ben evidenziato da Tellenbach11, per l’iperidentificazione patoplastica con un ruolo sociale ormai dissolto ed eluso dallo sconfinamento dei sistemi interattivi, dall’avvicendamento dei ruoli strutturali e dalla decostruzione di ogni forma di scala sociale12. Ancora, non v’è più posto per le stabili contrapposizioni polari, dal carattere esistenziale e sovraordinato, per le quali un chiaro ordinamento valoriale appariva scolpito nei presupposti etico-morali che informavano in maniera condivisa le (inter)azioni umane: chiunque ne prescindesse, varcando il confine del consorzio umano, dava luogo a un processo di soggettivazione, seppur abnorme, che proprio in virtù della sua marginalità definiva ulteriormente il luogo della normalizzazione condivisa10. Proprio in relazione alle suddette contrapposizioni antitetiche sembravano edificarsi le costruzioni paranoiche classiche originando deliri strutturati di carattere persecutorio13, che apparivano inscalfibili ed esiziali e che convocavano ragioni di principio ordinatorio e di giustizia superiore, attraverso le quali irreggimentare l’orizzonte degli sviluppi esistenziali possibili.

Sembra dunque essere avvenuto un profondo mutamento nel contesto corrente, la cui prerogativa non promana tanto dalla vacuità di processi valoriali ordinatori e condivisi, quanto dalla loro natura relativa, ipercinetica, in costante ammodernamento ed adeguamento, all’inseguimento di una condizione chimerica onnicomprensiva per la quale l’immersione nel micro possa consentire illusoriamente il dominio del macro. Gli attuali modelli sistemici di sviluppo, in perpetuo aggiornamento e mai strutturalmente alternativi, sembrano dunque aver precluso ogni forma di individuazione originale, anche fosse individualistica. Come potrebbe essere altrimenti, nel mondo dell’iperstimolazione saturante dell’informazione9, in cui l’eventuale assenza di movimento sembrerebbe risultare da una paritetica contrapposizione vettoriale ove ogni proposizione definisca seduta stante la propria disconferma e in cui ogni costruzione e ogni progettualità portano connaturate le proprie immediate obiezioni? In una certa misura, il vissuto che ne deriverebbe potrebbe essere ascritto a un’impotenza (pre)determinata, inemendabile. Un velleitario inseguimento atto a legare un’identità fluida esporrebbe il soggetto al rischio di rottura, all’esaurimento delle sue riserve elastiche e all’appalesarsi dei propri limiti davanti al fallimento delle proprie protesi prestazionali.

Emerge quindi l’“impotenza riflessiva”6 che diviene anche impotenza auto-riflessiva, ossia incapacità di autorappresentarsi e di autopromuoversi al di fuori di specifici dettami culturali vissuti come necessari. Il processo di identificazione si presenta in una costante profezia che inevitabilmente si autoavvera. L’(auto)valutazione e la conseguente conferma della rassicurante partecipazione a un processo già noto non sollecita, non mette in discussione, non incalza, e nutre un’apatia accudente. In un meccanismo di elusione perpetrato ai danni di un Io sempre più debole anche per rendere contezza della sua instabilità. Si dispiega un’apatia riflessiva che comprime ogni funzione antagonista e silenzia ogni definizione “per contrapposizione”14. La soggettività ha subìto una deresponsabilizzazione circa le sue funzioni di autorappresentazione e, ormai disorientata, non appare più supportata dalla definizione del limite, tanto etico quanto identitario.

DISINVESTIMENTO PROTETTIVO

Da un tale assetto può nascere l’angoscia pervasiva di fallire il processo di autoconferma e autoassolvimento. Una spirale inderogabile in cui la coazione collettiva domina ogni istanza identitaria e ogni anelito di individuazione. Tale angoscia diventa cifra relazionale, modello interattivo di (auto)valutazione e vaglio delle conformità, in una rappresentazione utilitaristica degli scambi sociali. La relazione intesa come processo di corrispondenza diviene, in modo più proteiforme e pervasivo rispetto al passato, terreno fertile per vissuti ed esperienze di inadeguatezza. Non solo nel solco di inconsce istanze psichiche, dinamicamente organizzate, ma anche in virtù di quel processo di validazione di carattere globale che la pervasività dell’informazione ha perpetrato, generando l’illusorietà di modelli alternativi di riferimento da cui attingere. Si è determinato il crollo del ruolo sociale, l’adesione al quale consentiva una serena acquiescenza alla vita di comunità, mentre la trasgressione dello stesso, sulla spinta di istanze narcisistiche, era foriera di conflitti interni che potevano strutturarsi in visioni persecutorie. In tal senso potrebbero collocarsi gli sviluppi più classici della paranoia, come i casi di Ernst Wagner15, Paul Schreber16 o la rappresentazione offerta da Kleist nel suo “Michael Kohlhaas”17, sviluppi che esigevano per la loro declinazione patoplastica, a partire dai poli tematici di insufficienza e relativa onnipotenza stenica, una cornice sociale e culturale rigida di riferimento e la presenza di un Altro costante (spesso declinato in una forma divina allo stesso tempo onnipotente e persecutoria, come per es. nel caso di Schreber)16, entrambi binari necessari per uno sviluppo delirante stabile e coerente.

Il ruolo sociale quindi, che in epoca moderna era stato vissuto come coattivo e dominante, ha lasciato il campo, nel tempo dell’apparenza digitale totipotente e illusoriamente illimitata, al disorientamento e alla confusione davanti all’assenza di linee di sviluppo identitario profondamente partecipabili e soggettivamente vissute. Si è generata così «un’angoscia di depersonalizzazione diffusa e quasi permanente, sostenuta da una continua minaccia di perdita di identità. Uno stato cronico che alcuni hanno proposto di chiamare dispersonalizzazione. Una condizione che, al di là del suo valore di sintomo, svolge una funzione di adattamento rispetto a un’alta vulnerabilità narcisistica. Un modo per porre un argine a un’elevata fragilità narcisistica che blocca l’evoluzione fisiologica verso la personazione. Sentimenti che costituiscono il frutto di una strategia difensiva inconscia fondata sul ritiro. Un ritiro che, a sua volta, svolge una funzione di esonero nei confronti di un Io altamente vulnerabile, per proteggerne il funzionamento. […] Diventa impossibile pensarsi in maniera integrata nel presente, nel passato, nel futuro. Non si sviluppa, in altre parole, un’adeguata funzione narrativa»18,19.

Parrebbe quindi che una tale decomposizione identitaria possa portare alla frammentazione di ogni possibilità di un’autorappresentazione, oltre che di una rappresentazione dell’altro e del mondo, e quindi, probabilmente, anche la costituzione di un delirio strutturato diventa impossibile. Vengono così insidiate le dimensioni del confronto, del paragone e della relazionalità connaturate all’assunzione di modelli culturali di riferimento. Solo questi ultimi infatti (in un meccanismo triangolare che veda soggetto, oggetto del confronto e un tertium di riferimento) possono stabilire il merito e lo sviluppo delle crisi narcisistiche rendendo possibili, seppur sempre effimere e sempre apparenti, le necessarie esperienze di gratificazione. Ne deriverebbe la necessità di un disinvestimento nei riguardi di un apparire mutevole e in perpetuo aggiornamento (si consideri come la rappresentazione digitalizzata di sé nell’istante stesso del suo prodursi reclami un prosieguo, un aggiornamento che porti a una elaborazione ulteriore proprio alla stregua dei meccanismi capitalistico-finanziari).

La perdita di modelli partecipati e di ascendenze culturali distinte ed escludenti anche quando esperite passivamente smantellerebbe le dinamiche prettamente narcisistiche relative alla cesura con un ideale dell’Io certamente invalidante e frustrante, ma purtuttavia direzionante. Verrebbero meno le funzioni di autorappresentazione necessarie a ogni posizionamento relazionale. Un ritiro emotivo che abbandoni ogni anelito evolutivo. Soccombe l’agonismo dell’apparire, la progettualità individuale e l’autopromozione posta al centro della sfida prestazionale cui ognuno viene chiamato nell’era del realismo capitalista. Si dissolve quell’agibilità dell’idealità dell’Io che, ripetiamolo, svolgeva pur sempre un ruolo di individuazione. Dissoluzione di un’idealità che costituiva tanto un limite al godimento, quanto lo sviluppo di un anelito libertario ed emancipatorio, anti-borghese, di forte impianto edonistico e consumistico. Negli ultimi decenni è andata materializzandosi quell’inemendabilità di un sistema capitalistico che si è fatto “dispositivo” (Gestell) autopoietico e intrascendibile, tanto che potremmo dire, parafrasando Žižek, che si può pensare a una fine del mondo ma non a una fine del capitalismo. Si profila una situazione in cui l’inadeguatezza s’è fatta insufficienza, il fallimento tende a divenire sconfitta. Come in seguito a un terremoto in cui la distruzione abbia ridotto a un cumulo indistinto di macerie ogni edificio annullandone i distinguo di carattere estetico, valoriale e funzionale e disorientando e traumatizzando i sopravvissuti, similmente devastante appare la dissoluzione di ogni linea di promozione identitaria, così da rendere necessario un nuovo assetto riequilibrante, ridefinitorio e riordinante. Un nuovo ordinamento che possa raggiungere addirittura una posizione paranoide in cui vengono «ripristinate le differenze e la distanza necessarie al “normale” funzionamento psichico»19.

LO SVILUPPO PARANOIDE DAL FALLIMENTO ALLA SCONFITTA

Così come la società demarcata in classi rigide e in idealità precostituite generava specifiche classi di patologie della trasgressione, la “società della prestazione” genera specifiche forme di disagio in cui la condizione del fallimento struttura un’atmosfera connotata da vissuti di indegnità e di colpa relativi alla distanza nei riguardi della prestazione mancata. In questo caso la dimensione temporale è quella del post-festum20, dell’accaduto irrimediabile proprio perché storicizzato, enucleato nel tempo e dal tempo. L’esperienza vissuta riguarderebbe la mancanza di valide potenzialità, un’inabilità allo stesso tempo tecnica e formale nelle sue declinazioni ontica, relazionale e normativa (con tutte le connotazioni deontologico-morali che ne possono conseguire). Il fallimento parla l’idioma dell’esperienza mancata. Con sintesi essenziale, è esperienza di perdita. Tali vissuti sono anche la testimonianza di una distanza e di una indegnità rispetto a luoghi condivisibilmente ambiti, agognati in relazione alla posizione di controllo che evocavano. In questa esperienza la partecipazione diviene istanza scontata, valorizzata nel suo senso e nella sua legittimità unicamente dal successo finale.

In una società strutturata a partire da un modello tardo-capitalistico, l’io si edifica come progetto costantemente autorinnovantesi: la migliore versione di se stessi («sparisce la possibilità del servo di concepirsi come tale»). I valori della produttività e della valutazione sono introiettati fin dalle prime fasi dello sviluppo e modellano una concezione di sé che si radica nell’imprenditorialità. Imperativo diviene strutturare un’esistenza utile con il conseguente sovrapporsi delle dimensioni del lavoro e del riposo, degli spazi pubblico e privato, e il contaminarsi di ogni dimensione ludica con le propaggini e le sirene della produttività. È possibile tracciare alcuni aspetti caratteristici del mondo, della vita, del soggetto, della società, della prestazione, l’homo oeconomicus21, rappresentato da J.S. Mill come un essere razionale guidato dall’obiettivo di una massimizzazione del profitto, antitetico all’homo reciprocans evocato da Kropoktin.  Individuo mimetizzato il primo, assorbito dalle trame sociali i cui valori costitutivi sono utilità, produzione, ottimizzazione. Un uomo destinato a un imperativo, “io posso”, che assume le caratteristiche «di un dovere, cioè di un obbligo morale ben diverso da quello che contraddistingue, per esempio, l’esistenza del typus melancholicus vincolata dall’Io devo che lo impegna a essere per l’Altro e a contribuire all’ordine e all’armonia nel proprio ambito sociale, o che condiziona l’esistenza nevrotica inibita e bloccata»22.

Un tale orizzonte esistenziale implica una metamorfosi necessaria nel mondo della vita del soggetto, inclusivo del rapporto con l’altro, con il corpo e della dimensione del tempo. L’altro, esclusivamente strumento, viene appiattito, reso inconsistente, vissuto come fonte di godimento. L’evitamento dell’intimità è sostanziale. A tal riguardo, la contrapposizione tra intimità e privacy appare centrale: la prima, sempre introspettiva, è necessario fondamento delle relazioni; per l’homo oeconomicus, oltre che improduttiva, appare fonte di disagio giacché lo espone alla dipendenza e all’interazione con un altro complesso e diverso; la privacy diviene invece baluardo, argine per un nucleo vulnerabile che non deve essere esposto allo sguardo dell’altro. La privacy di ascendenza liberale funge da sipario, divisione tra un sé reale inesposto e un falso sé spettacolarizzato, iperproduttivo e bulimico.  L’imprenditore di se-stesso, ultra-soggettivizzato, si misura con l’autocompimento, una monade cangiante destinata a ridurre la propria gratificazione all’accumulazione di merci e secondarie rappresentazioni. Chicchi e Simone parlano di una «effimera ma intensa identificazione del soggetto con la valutazione quantitativa della sua performance»23. Valutazione che tende a occupare ogni spazio di esistenza, una pervasività agevolata dalle tecnologie digitali che continuamente sollecitano il soggetto a una esposizione e misurazione “quantificabile” di sé (viene in mente l’utilizzo compulsivo del like, come forma di controllo dello sguardo continuo dell’altro e sull’altro, senza il quale l’esperienza soggettiva diviene rarefatta e inconsistente). Si instaura una Io-crazia24 di ascendenza lacaniana, in cui la prestazione è l’essenziale campo di applicazione del soggetto che rivendica strenuamente la propria autonomia sino alla negazione di qualsiasi limite o bisogno relazionale nel vortice illusorio dell’onnipotenza che diviene “espressione di uno stile di passione intrecciato all’autonomia”25.

Si pensi al corpo, non più vissuto ma posseduto, corpo-che-ho. Un essere corpo-oggetto che esiste in quanto visto dagli altri. Intermediario, tra il sé e il corpo, si pone lo sguardo dell’altro: il corpo diviene attributo, materia da plasmare, modellare. Reificato nell’immagine, il corpo rappresenta uno strumento mercificato di conferma e auto-valutazione. «Il soggetto scegliendo il proprio corpo sceglie (o crede di scegliere) la propria identità»22.

È a partire da questo punto tuttavia che l’Altro si confonde, si estingue sfumando dal campo dell’esistente che a sua volta si desertifica e si consuma. L’idealità svanisce e si dissolve. Il campo dell’interattività, e quindi dell’intenzionalità, viene divelto esponendosi alle incursioni di un’ulteriore forma di angoscia che risuona nel vacuum di modelli e prospettive. Si instaura così il dominio dell’indefinito e dell’indistinto. La norma imposta cui conformarsi si dematerializza e il soggetto appare costretto all’apparente libertà di un movimento circolare, rincorrendo incessantemente un’idealità ormai vuota e soluta, un al di là da sé sempre più indefinito.

E dunque appare inevitabile considerare come la riorganizzazione post-moderna del lavoro e delle relazioni sociali abbia necessariamente plasmato nuove forme di sofferenza mentale. Il presente marasma di codici e linguaggi, la fluidità delle relazioni e delle aggregazioni, degli indirizzamenti e delle prospettive da cui siamo partiti riflettono un’esperienza della complessità che progressivamente è andata sviluppandosi. La multipolarità è divenuta matrice costitutiva, sostanziando in maniera cospicua le forme interattive sino a condizionare i processi identitari. In quest’ottica, specifiche dinamiche psicopatologiche potrebbero assurgere a dispositivo ridefinitorio, reattivo rispetto all’indefinito. Nel dominio assoluto dell’omologazione sociale dal moto ondivago, la brama di unicità solca i confini della differenziazione, la quale sembrerebbe tradire l’originale illusorietà di modelli condivisi a loro volta legati a un’altra esperienza di separazione. L’interiorizzazione della dimensione dell’indistinto, dei codici dell’interscambiabilità e della sostituibilità di oggetti di consumo, delle loro rappresentazioni, sino al consumo delle stesse rappresentazioni, sembrerebbe annullare ogni solco, ogni distinguo, come fosse un fiume essiccatosi da troppo tempo e privo di ogni flusso, il cui greto appaia ormai indistinto dagli argini del terreno che un tempo fiancheggiavano il corso d’acqua. Manca la differenza, manca la distanza, manca la possibilità di ogni processo individuante, fosse anche regressivo e passivizzante. Manca ogni prospettiva di discernimento. In questa forma si esprime tutto il peso dell’autonomia a cui Ehrenberg25 fa riferimento: esposto all’insopportabile ma inevitabile caduta, il soggetto della società neoliberale, imbevuto dell’illusione della propria sovranità, assume su di sé il peso di questo fallimento, non potendolo attribuire a un Altro ormai scomparso, indistinto appunto. Questi fallimenti, figli di uno stato di disorientamento susseguente alla consapevolezza della finitudine delle prestazioni, assumono i connotati di molteplici “infarti psichici”26; irrompe l’esperienza del vuoto, del simulacro, dell’inaccessibilità a un appagamento sempre meno attualizzabile seppur ancora dipendente dallo sguardo e dalla prestazione. È in questa congiuntura che, fluidificandosi la dinamica servo-padrone e la diseguaglianza immanente alla società, può risuonare la «melodia sirenica»27 di un potere disperso che recita l’illusione della possibilità di fare l’Io, il soggetto «cui cedere assuefatti. Non più la società appare come luogo determinante, bensì l’Io, che si autoresponsabilizza e si deprime»26 28.

Ma è utile, in termini esplorativi, delineare un altro assetto possibile, un ulteriore sviluppo psicopatologico. L’esposizione a una ferita narcisistica, che in quanto tale è identitaria, e l’emersione di una vulnerabilità difficilmente verbalizzabile e ascrivibile alle dimensioni della vergogna, dell’inadeguatezza e del fallimento, possono determinare regressioni a un funzionamento borderline, con l’agglutinarsi di sentimenti di rabbia verso l’altro. Per l’economia psichica del soggetto della società neoliberale diverrebbe proficuo il confronto con una sconfitta determinata da un Altro persecutore e soverchiatore nei riguardi di un Io arroccato nel tentativo di fuga dalla devastazione del fallimento solipsistico. Il decorso psicopatologico devia il proprio sviluppo ed elude qualsivoglia impasse depressiva la quale d’altra parte imporrebbe il vuoto, l’arresto produttivo e la recessione identitaria. Il funzionamento proiettivo e la radicalizzazione paranoide interverrebbero nel quasi-delirio (nella quasi-psicosi potremmo dire) per riproporre le distanze e per testimoniare l’individualità sopravvissuta, foss’anche al prezzo di un’esperienza di solitudine e sconfitta appunto. «Il sintomo (psicotico) rappresenta il modo in cui quella persona, in quel momento della sua vita, è stata costretta a dare un diverso assetto al suo funzionamento psichico, spostandosi verso la follia e verso una vita fuori di sé»19.

Possiamo ipotizzare, tenendo a mente le sostanziali differenze, alcune analogie con il mondo borderline, così pervaso dalle esperienze di umiliazione e ingiustizia: tale confronto, che si estingue nell’analisi di specifici vissuti e meccanismi difensivi, può essere utile per rimarcare le caratteristiche specifiche degli sviluppi paranoidei, precipui del soggetto della prestazione, su cui ci stiamo concentrando. La tradizione psicodinamica, mediante l’esplorazione dei processi difensivi e dei meccanismi di adattamento alle esperienze di angoscia, ha messo in evidenza una trasversalità di alcune espressioni psicopatologiche del carattere annoverabili tra specifici funzionamenti e livelli di organizzazione personologica. In particolare, individuabili organizzazioni psico-relazionali si edificherebbero a partire da processi per i quali l’attribuzione di significati e l’orientamento dei vettori interattivi siano ascritti a una realtà esterna, eludendo ogni forma di rappresentazione autoriflessiva e introiettiva, sino alla formulazione di strutture abnormi di personalità. La clinica delle patologie del carattere e della personalità ha mostrato empiricamente quanto alcune dimensioni psicopatologiche siano connotate in maniera più o meno evidente da processi difensivi, seppur situazionali e contingenti, di natura proiettiva. Tali esperienze in particolare sono di comune riscontro clinico nei funzionamenti borderline di personalità29, ove elementi interni, ricusati e respinti dal piano cosciente, vengano attualizzati in relazione a realtà interattive esterne e investimenti oggettuali. Il carattere intensamente emotivo e denso delle inter-azioni nel mondo borderline ne prefigura la precaria condizione, vacillante e alle dipendenze di un Altro sfuggente, elusivo, ambiguo e indefinito. L’organizzazione borderline delle esperienze relazionali, quando elicitata da accessi di forte tensione emotiva e angoscia regressiva, attinge a un processo di stabilizzazione e risoluzione di tali momenti psichici proprio mediante il ricorso a forme proiettive ed esperienze persecutorie. In questi frangenti il coagularsi della rabbia, superando la dispersione e la confusione, permette la gestione dell’intermittenza dell’Altro.  Un Altro indefinito, doloroso, ma comunque necessario e presente: ed è in questo passaggio che potremmo rintracciare una distinzione essenziale tra il mondo borderline e quello più liquido e informe del narcisismo, privato di idealità, della società della prestazione. L’evanescenza del limite e il confronto con il fallimento dell’illusione delle possibilità infinite dell’Io, perduta ormai la possibilità depressiva, permette esclusivamente un richiudersi solipsistico, un assedio tra mura fragili in assenza di un reale avversario. Il borderline, d’altro canto, esperisce frequentemente il vissuto di una grave ingiustizia subita, intrecciata con un senso della giustizia idealizzato ed esasperato, quantunque estemporaneo e transitorio, che conducono all’interpretazione dell’Altro come ostile e persecutorio. Queste forme patologiche promuovono sempre processi di ricomposizione identitaria da parte del soggetto, che non arriva a fenomeni di coscienza abnorme dell’immagine del mondo: l’urgenza emotiva del mondo borderline si esplica nelle istanze confermatorie all’interno delle dinamiche interpersonali. La patologia della personalità con organizzazione borderline è pervasa dall’esperienza di fluttuazioni emotive e instabilità affettive nata dall’incertezza del riconoscimento dell’Altro; in questa accezione, nell’identificazione proiettiva30, che persegue una fragile coerenza identitaria a partire dalla commistione di elementi primitivi difensivi (la proiezione e l’interiorizzazione appunto), le organizzazioni borderline di personalità giungono a strutturare un ancoraggio alla realtà relazionale da loro abitata abnormemente mediante la validazione del proprio stato emotivo da parte di un altro-oggetto le cui esperienze vissute siano indotte a colludere con i contenuti del processo proiettivo.

Il mondo all’interno del quale si muove il soggetto della prestazione, invece, appare più desolante: manca il dilemma della relazione che, potremmo dire sinteticamente, si estrinseca tra i poli della vicinanza e della lontananza; la relazione invece è ridotta a strumento autopoietico, l’Altro appare sempre più dissolto, così come la reale libertà di un soggetto privato di idealità.

CONCLUSIONI

Nel contesto delle nuove esperienze di fallimento qui approfondite, sembrerebbero emergere forme paranoidi dal carattere sempre generalizzabile, frequentemente connotate da un’aura generazionale, in cui la dimensione valoriale della libertà soggettiva, avendo in sostanza soppiantato la dimensione di Giustizia ordinatoria tipica della paranoia classica, funga da paradigma inalienabile nella definizione di responsabilità e colpe che concernono un “noi” identitario, depauperato e sottomesso, e un “voi” organizzato, interessato e controllante. È l’apoteosi della rivendicatività, dell’antagonismo funzionale al disvelamento di verità omesse quando non dissimulate. Si tratta di esperienze “quasi” psicotiche perché relative e transitorie, mai metafisiche o escatologiche, ancor meno ontologiche19. L’esperienza paranoica abita sempre la relazione, sebbene all’interno di un contesto irreggimentato e alimentato da attriti insuperabili perché costitutivi. Il processo persecutorio esprime l’occasione per l’espressione di una rabbia che è prima di tutto sociale e identitaria, relativa a un contesto in cui le soggettività ancora una volta non abbiano raggiunto la possibilità di costruirsi a partire da definiti e stabili percorsi culturali, divenendo così terreno fertile per processi reattivi ed estemporanei, mai realmente costitutivi. Qui il delirio assume l’accezione di un giudizio erroneo rispetto al dato di realtà, senza tuttavia essere sotteso dalla trasformazione dei modi dell’esperienza nella relazione Io-Mondo. Di contro, la costruzione delirante diviene simbolicamente una forma abnorme di emersione identitaria a partire dal magma dell’indistinto, del relativo, del corruttibile e del vuoto. Ancora, le esperienze allucinatorie sembrano più rare, inficiate nel loro manifestarsi dalla persistenza sostanziale delle forme di agency e meità31, oltre che dalla reattività dell’arroccamento paranoico che codifica un nuovo assetto relazionale. Quando presenti, le forme allucinatorie non sembrano assumere il carattere passivizzante e intrusivo del commento o dell’inserzione tipico del mondo schizofrenico32, piuttosto reificano simbolicamente le angosce irrisolte del soggetto il quale allevia il proprio dramma attraverso la materializzazione del sospetto che si fa oggetto, sebbene allucinatorio, nel qui e ora dell’esperienza vissuta33. Nell’immediatezza del suo compiersi la dispercezione si autoesaurisce, proprio perché assolve al compito di una riorganizzazione paranoide transitoria34,35. In questi sviluppi, emergono la “rabbia giovane”, sobillatrice, arrogante e schernente, insieme a un antagonismo reattivo ed elusivo nei riguardi di oneri e responsabilità di cui il soggetto non riconosce la paternità. Prende forma la dimensione del sospetto pervasivo e angosciante rispetto al cui superamento si conforma il carattere transitorio e fulmineo di tali esperienze persecutorie. Il soggetto giunge a una costruzione ripolarizzante per la quale nel “quasi” delirio vengano ristabiliti l’ordine e le rispettive posizioni, antitetiche ma finalmente localizzate nella topografia dei processi di intenzionamento del Mondo19. Prende piede la dimensione dell’insufficienza, che testimonia una perdita “in partenza”, un ineludibile limite, una non-possibilità che diviene paradossale pacificazione della vergogna e dei suoi tormenti. La sconfitta in quest’ottica è riequilibrante, narrativamente tollerabile perché concepita nell’ingiustizia e partorita nell’inganno, a loro volta inderogabili e ineffabili. Questa distanza dall’altro persecutore, che mai assurge a un piano ontologico, è quindi vivida rappresentazione di un danno originario, di un’eccepibile ripartizione di opportunità e fortune, destini avversi dal sapore di romantici fatalismi e amari palliativi che assicurino la patta sullo scacchiere esistenziale.

Conflitto d’interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto d’interessi.

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