La sanità penitenziaria nella realtà italiana


GIANFRANCO RIVELLINI1, RODOLFO PESSINA2, ANTONIO MARIA PAGANO3, SARA GIORDANO4, CARMEN SANTORIELLO4, ILARIA ROSSETTO5, SERGIO BABUDIERI6,7,8, CAROLA CELOZZI9,
LUCIANO LUCANIA
10,11, MARIA LAURA MANZONE12, GIANCARLO NIVOLI13,14,
GIUSEPPE QUINTAVALLE
15,16, ENRICO ZANALDA17, LILIANA LORETTU18,19,
MASSIMO CLERICI*
20,21,22,23

*E-mail: massimo.clerici@unimib.it


1REMS Castiglione delle Stiviere, ASST Mantova (Direttore)

2Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Milano Bicocca

3Dipartimento Attività Territoriali – UOSD Tutela Salute Adulti e Minori Area Penale, ASL Salerno (Direttore)

4Dipartimento Attività Territoriali – UOSD Tutela Salute Adulti e Minori Area Penale, ASL Salerno

5REMS Castiglione delle Stiviere, ASST Mantova

6S.C. Clinica Malattie Infettive e Tropicali, Università di Sassari (Direttore)

7Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive e Tropicali, Università di Sassari (Direttore)

8Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe) (Direttore Scientifico)

9Dipartimento di Salute Mentale – DSM ASL Roma 4 (Direttore)

10Sanità Penitenziaria, ASP Reggio Calabria; Dipartimento Regionale Tutela della Salute, Regione Calabria (Coordinatore)

11Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe) (Presidente)

12S.C. SPDC ASL 4, Regione Liguria (Direttore)

13Professore Emerito di Psichiatria, Università di Sassari

14Società Italiana di Psichiatria Forense (SIPF), sezione speciale SIP (Presidente)

15ASL Roma 4 (Direttore Generale)

16Sanità Penitenziaria Regione Lazio (Referente)

17Società Italiana di Psichiatria (SIP) (Presidente)

18Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Sperimentali, Università di Sassari (Professore Associato)

19Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università di Sassari (Direttore)

20Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Milano Bicocca (Professore Ordinario)

21Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze – DSMD ASST Monza

22Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università di Milano Bicocca

23Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze (SIP.Dip), sezione speciale SIP (Presidente)


PARTE PRIMA

1. La Sanità Penitenziaria nella realtà italiana

1.1. Premessa e obiettivi

La tutela della salute psichica e fisica della persona è principio cardine della difesa dei diritti fondamentali dell’individuo: in quest’ottica appare evidente come, in considerazione della criticità e della complessità insite nello stato di privazione della libertà, alla popolazione detenuta debbano essere garantiti analoghi diritti e doveri dei cittadini che si giovano della libertà, compatibilmente alle esigenze e alle norme di sicurezza dettate dai Regolamenti interni agli Istituti Penitenziari1. Su questo principio è stata basata la creazione della Sanità Penitenziaria che viene considerata oggi una branca della medicina a tutti gli effetti, volta a trattare proprio quella particolare fetta di popolazione a rischio per patologie organiche e psichiche: una branca della Medicina Pubblica che, come tale, è demandata attualmente – sia dal punto di vista organizzativo che legislativo – alla competenza del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e non più al Ministero di Grazia e Giustizia, come un tempo accadeva2.

Al fine di meglio rappresentare l’attuale funzionamento del servizio sanitario all’interno delle carceri italiane, è importante mettere in luce il percorso evolutivo che ha portato, dall’aprile del 20083, al transito delle competenze in materia di assistenza sanitaria alla popolazione detenuta dal Ministero della Giustizia al SSN e, nel 20142, a una modalità più innovativa di gestione degli autori di reato affetti di malattia mentale con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e la creazione delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS).

1.1.1 Excursus storico. L’origine legislativa della Sanità Penitenziaria in Italia

In Italia il diritto universale alla salute e alle cure mediche è stato sancito dall’art. 32 della Costituzione Italiana, secondo cui «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». È importante notare come, già prima che la norma costituzionale prendesse forma, la presenza di personale sanitario negli istituti penitenziari italiani era prevista dal “Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena” del 1931. Detto regolamento prevedeva la presenza di un medico all’interno di ogni istituto penitenziario, omettendo, tuttavia, di precisare la natura del rapporto di lavoro tra il professionista e il Ministero di Grazia e Giustizia. In quel particolare momento storico l’assistenza sanitaria non veniva ancora considerata diritto fondamentale dell’individuo e non deve stupire che la normativa dell’epoca attribuisse al Ministero della Giustizia il compito di provvedere alla cura della salute dei detenuti, considerato che non esisteva – in quel periodo – un unico organismo pubblico preposto alla tutela del diritto alla salute dei cittadini (come fu poi il SSN). Infatti, enti di varia natura (previdenziali e di tipo mutualistico) si occupavano dell’assistenza sanitaria di singole categorie di lavoratori (commercianti, artigiani, ecc.), in modo sostanzialmente diverso, sia qualitativamente che quantitativamente. Il Ministero della Salute venne istituito solo nel 1958 e solo con il tempo si è affermata una concezione unitaria dell’attività sanitaria. In questo quadro, la presenza di un servizio sanitario per detenuti gestito dal Ministero della Giustizia risultava coerente con la realtà dell’epoca4.

Al Regolamento del 1931 ha quindi fatto seguito la Legge 740/1970 che ha disciplinato il rapporto di lavoro di tutte le categorie di personale sanitario che svolgevano attività lavorativa negli istituti penitenziari, ma non inserite nei ruoli organici dell’Amministrazione Penitenziaria. Detta legge ha posto così le basi dell’organizzazione, negli istituti penitenziari, di un servizio sanitario volto ad assicurare la continuità assistenziale alle persone in stato di privazione della libertà personale.

Soltanto con la Legge 354/1975 (“Ordinamento Penitenziario”) sono state introdotte specifiche norme in tema di organizzazione dei servizi sanitari negli istituti penitenziari. In particolare, è stato stabilito che detti servizi dovessero necessariamente corrispondere alle effettive esigenze sanitarie della popolazione detenuta4. Il decimo comma dell’articolo 11 della Legge 354/75 attribuiva all’Amministrazione Penitenziaria la facoltà di avvalersi della collaborazione dei servizi sanitari intra ed extraospedalieri, mettendo definitivamente nero su bianco la possibilità che la “sanità pubblica” (il SSN ancora non esisteva) potesse, in qualche modo, rendere servizio anche alla popolazione carceraria, oltre a quella non ristretta. Il quadro normativo fu ampliato e completato dal successivo DPR 431 del 1976 (“Regolamento di esecuzione della Legge 26 luglio 1975, n. 354, Ordinamento Penitenziario”), poi modificato con il DPR 230/2000.

Mediante la nota Legge 833/1978 venne istituito il SSN, ma nella stessa non si faceva alcuna menzione rispetto alla gestione della sanità penitenziaria: ciò determinò dunque un dibattito circa le competenze sulla gestione dei detenuti con problematiche mediche. Tra gli interlocutori, molti sostenevano che il servizio sanitario all’interno delle carceri dovesse ormai considerarsi, per gli effetti della legge sul SSN, competenza esclusiva del Ministero della Salute, sebbene non ci fosse, nella legge stessa, una deroga esplicita; altri invece propendevano per la tesi opposta fautrice di nessun cambiamento in materia, con susseguente mantenimento – in capo al Ministero della Giustizia – dei compiti sanitari all’interno delle carceri.

La vicenda ha trovato composizione a seguito dell’intervento del Consiglio di Stato – con il parere n. 305 del 7 luglio 1987 – che si esprimeva confermando l’esclusiva competenza della Amministrazione Penitenziaria in materia di diritto alla salute della popolazione detenuta in supporto alla tesi favorevole alla conservazione dell’assistenza sanitaria «tra i compiti riservati allo Stato, da svolgere con le preesistenti strutture del servizio sanitario penitenziario»4.

Nel tempo, però, videro la luce alcuni interventi volti a unificare i servizi sanitari penitenziari a quelli del SSN:

1. un primo cambiamento in senso opposto fu rinvenibile nel DPR 309/1990, mediante il quale vennero affidati alle ASL i compiti di cura e riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti o alcolisti;

2. con la Legge 296/1993 vennero invece istituiti appositi reparti detentivi ospedalieri all’interno dei nosocomi civili.

Nonostante ciò, sebbene fossero già in atto collaborazioni con il SSN, la materia restò competenza del Ministero della Giustizia, il quale continuò a sostenere l’autonomia della sanità penitenziaria, emettendo numerose circolari volte a disciplinarne la materia2.

1.1.2. Il passaggio di competenza della Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia al SSN

I segni di un primo cambiamento radicale sono rinvenibili nella Legge 419/1998, la quale incluse – fra gli obiettivi da realizzare con urgenza – la riforma dell’assistenza sanitaria nel sistema carcerario a partire dalla specifica norma (articolo 5) intitolata “Riordino della medicina penitenziaria”. In forza di questa legge-delega viene emanato il D. lgs 22.6.1999 n. 230 che sancì il passaggio del personale sanitario e delle risorse dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, limitatamente alla prevenzione e alle tossicodipendenze. La legge era fondata sul presupposto della collaborazione permanente fra le ASL e l’Amministrazione Penitenziaria, prefigurando pertanto un assetto nel quale alle aziende sanitarie locali fosse attribuito il compito di erogare le prestazioni sanitarie e al sistema penitenziario quello di tutelare “le esigenze di sicurezza”4. Il passaggio fu graduale, anche mediante sperimentazioni iniziali (nelle Regioni Toscana, Lazio e Puglia) e deroghe. Il termine previsto (anno 2000) fu prorogato più volte a causa delle tanto numerose quanto obiettive difficoltà d’attuazione pratica della riforma.

Nel maggio 2007, su iniziativa del Sottosegretario alla Salute viene costituito, presso il Ministero della Salute, un gruppo tecnico – coordinato dallo stesso Sottosegretario e composto dal Sottosegretario alla Giustizia, dai capi della segreteria e da dirigenti dei due Dicasteri indicati, nonché da componenti delegati dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome – con l’obiettivo di redigere una proposta di DPCM attuativo di quanto previsto dal precedente D. Lgs 230/99.

Dopo iniziali tentennamenti dovuti a stanziamenti economici insufficienti, il tutto viene poi risolto mediante l’inserimento di una specifica voce di spesa all’interno della Legge Finanziaria 2008 che permise la pubblicazione del fondamentale Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 01 aprile 2008 recante «le modalità, i criteri e le procedure per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie, dei rapporti di lavoro, delle attrezzature, arredi e beni strumentali relativi alla sanità penitenziaria»3.

Secondo tale documento, dal 14 giugno 2008 vengono trasferite ope legis al SSN tutte le funzioni sanitarie, fino ad allora svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e dal Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia (GCM). Con esso, assieme alle funzioni, venivano trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri, mediante l’istituzione del “Fondo di Sanità Penitenziaria”. Il personale sanitario che, a oggi, opera nelle carceri italiane non è più inquadrato contrattualmente quale dipendente del DAP ma viene trasferito alle ASL. Inoltre, viene disposta la presa in carico, da parte delle Regioni e delle ASL di competenza territoriale, degli OPG e delle Case di Cura e Custodia (CCC), secondo le modalità e i tempi previsti da apposite linee guida, ispirate ai principi della territorialità e della riabilitazione socio-sanitaria degli internati portatori di patologia psichiatrica3.

I “principi di riferimento” e gli “obiettivi di salute-LEA”, contenuti nell’allegato “A” del suddetto DPCM, hanno rappresentato – e continuano a rappresentare – una importante conquista di civiltà e di umanità per il nostro Paese. Tra i principi di riferimento3,4 vengono identificati:

1. Riconoscimento della piena parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, degli individui liberi e degli individui detenuti e internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale;

2. Necessità di una piena e leale collaborazione interistituzionale tra SSN e Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia Minorile, al fine di garantire in maniera sinergica la tutela della salute e il recupero sociale dei detenuti e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale, nonché la esigenza di sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, degli istituti di pena per minori, dei Centri di Prima Accoglienza, delle Comunità e dei Centri clinici;

3. Complementarietà tra gli interventi a tutela della salute e gli interventi mirati al recupero sociale del reo, attraverso azioni e programmi condotti con il concorso di tutte le istituzioni interessate, delle cooperative sociali e delle associazioni di volontariato;

4. Partecipazione diretta dei detenuti alle attività di prevenzione, cura e riabilitazione e ai percorsi di preparazione all’uscita;

5. Garanzia di condizioni ambientali e di vita rispondenti ai criteri di rispetto della dignità della persona, da parte degli Istituti penitenziari, degli istituti di pena per minori e i centri di Prima Accoglienza, delle Comunità e dei Centri clinici, evitando il sovraffollamento e rispettando i valori religiosi e culturali dei detenuti;

6. Centralità della continuità terapeutica, che viene a costituire il principio fondante per l’efficacia degli interventi di cura e deve essere garantita dal momento dell’ingresso in carcere e/o in una struttura minorile, durante gli eventuali spostamenti dei detenuti tra diversi istituti penitenziari e strutture minorili, e dopo la scarcerazione e immissione in libertà;

Il DPCM del 01/04/20083 ha anche definito una serie di azioni programmatiche fondamentali per migliorare la condizione sanitaria dei detenuti nel sistema carcerario, tra cui:

Promozione della salute, anche all’interno dei programmi di medicina preventiva e di educazione sanitaria, mirata all’assunzione di responsabilità attiva nei confronti della propria salute;

Promozione della salubrità degli ambienti e di condizioni di vita salutari, pur in considerazione delle esigenze detentive e limitative della libertà;

Prevenzione primaria, secondaria e terziaria, grazie all’identificazione dei fattori di rischio per diverse malattie organiche e psichiche mediante progetti specifici per patologie e target differenziati di popolazione, in rapporto all’età, al genere e alle caratteristiche socio culturali, con riferimento anche alla popolazione degli immigrati;

Promozione dello sviluppo psico-fisico dei soggetti minorenni sottoposti a provvedimento penale;

Riduzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio, attraverso l’individuazione dei fattori di rischio;

Ridefinizione delle modalità organizzative e di funzionamento dei Servizi sanitari interni, cartelle cliniche informatizzate;

Formazione di équipe multi-professionali sanitarie e sociali;

Protocolli operativi e sistemi di valutazione dell’appropriatezza degli interventi;

Uniformazione gli standard degli istituti sul territorio nazionale.

Importanti novità sono state poi introdotte dall’Accordo della Conferenza Unificata rep. n. 3 del 22 gennaio 2015 (“Linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari per adulti. Implementazione delle reti sanitarie regionali e nazionali”), recepito a livello regionale mediante delibera. Esso ha avuto il nobile scopo di implementare i servizi sanitari negli istituti penitenziari, creando una vera e propria “rete regionale dei servizi”. Quest’ultima si estrinseca mediante la creazione di accordi, intese e piani volti ad assicurare la somministrazione delle adeguate cure mediche ai detenuti, sia a livello intra-penitenziario che extra-penitenziario mediante le strutture regionali e interregionali a seconda dei casi4. Vengono previsti servizi specifici mediante esecuzione di visite mediche specialistiche, sezioni attenuate e dedicate a soggetti in situazione di fragilità, accordi tra Regioni per patologie che richiedono assistenza intensiva, disponibilità orarie stabilite in base alla consistenza numerica della popolazione carceraria, utilizzabilità della strumentazione diagnostica più moderna, trasferimenti ospedale-carcere, linee di gestione clinica condivise con l’UO Ospedaliera competente, osservazione post-acuzie non intensa, ausili tecnico-ortopedici specifici, esecuzione di test di screening previsti per l’intera popolazione, attività di promozione della salute, monitoraggio delle patologie di maggiore complessità e comorbilità, gestione delle dipendenze patologiche, monitoraggio delle criticità, piani diagnostici terapeutici con criteri di efficienza ed efficacia definiti in accordo con le Aree Vaste, piani per la riduzione del rischio di suicidio, cura e promozione della salute mentale etc.

In ossequio alle disposizioni dell’Accordo è possibile annoverare le seguenti 3 tipologie di presidio sanitario:

Servizio “medico di base” di primo e secondo livello;

Servizio medico “multi-professionale integrato”;

Servizio medico “multi-professionale integrato con sezione specializzata per la salute mentale”.

Vengono inoltre previste sezioni e spazi dedicati ai carcerati che versano in situazione di grave vulnerabilità: “custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti”, “sezione salute mentale” e “stanze per detenuti con grave riduzione della capacità motoria”. Sul fronte del coordinamento – storicamente carente nelle pubbliche amministrazioni italiane – vengono previsti appositi referenti sanitari intra-penitenziari, nonché inter-aziendali in collegamento con la rete interregionale nazionale.

1.2. La chiusura degli OPG e la creazione
delle REMS

Con il passaggio delle competenze gestionali degli OPG e delle CCC a carico del SSN, nell’ambito della salute mentale penitenziaria si concretizza la necessità di risolvere l’annosa questione delle scarse condizioni sanitarie in cui versavano gli autori di reato affetti da patologia mentale all’interno di queste strutture e, di conseguenza, il loro superamento con un modello innovativo che rispettasse i diritti stabiliti dallo stesso DPCM del 01/08/20083.

Il percorso di superamento degli OPG è stato lungo e tortuoso, non privo di ritardi prima di giungere a una effettiva applicazione. Esso inizia a prendere forma nel 2011 con il Decreto Legge (DL) 211/2011, convertito nella Legge n. 9 del 2012 (“Disposizioni rilevanti per il Settore Penale”), ma ha richiesto una serie di aggiornamenti legislativi progressivi (Decreto Interministeriale del 1° ottobre 2012, DL n. 24 del 25/3/2013 convertito nella Legge 57/2013) per giungere alla definizione e all’effettiva attuazione dei criteri strutturali, tecnologici e organizzativi delle nuove strutture sanitarie in cui sarebbero state applicate le misure di sicurezza del ricovero in OPG e assegnazione a CCC per tutti i soggetti autori di reato affetti da disturbi psichici. Il ritardo si è ripercosso sul piano concreto della costruzione delle strutture dato che, senza criteri precisi cui far riferimento, le Regioni non avrebbero potuto emanare progetti per la loro realizzazione e non poteva essere erogata nessuna parte del fondo previsto dalla legge 9/20124.

La tappa giuridica finale di questa lunga evoluzione verso la sanitarizzazione e la deistituzionalizzazione degli istituti di cura dei rei con malattia mentale è stato il DL 52/2014, convertito nella Legge 81/2014 (“Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”)2.

Questo documento stabilisce, in via definitiva, la chiusura degli OPG per il 31 marzo 2015 – dopo una serie di rinvii legislativi progressivi – e predispone la creazione di “nuovi” istituti capaci di fornire misure di sicurezza non detentive e non custodiali, cioè le REMS.

Queste strutture forensi sono gestite dal Servizio Sanitario (delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano) e sono concepite con una funzione terapeutica e riabilitativa pura proprio per gli autori di reato con malattia psichiatrica. Per questo motivo, non sono allocate in strutture penitenziarie attive, ma risultano, dal punto di vista legislativo, come strutture sanitarie a sé stanti al cui interno opera solo personale sanitario (e non più misto sanitario-penitenziario, come avveniva negli OPG e continua ad accadere nel resto del mondo). Solamente l’attività perimetrale di sicurezza e vigilanza esterna sfugge alle mansioni demandate al SSN, ma viene espletata – su accordo con la Prefettura – dalle Forze dell’Ordine e non più dalla polizia penitenziaria.

La Legge 81/2014 (2,4) contiene una serie di punti particolarmente innovativi:

Secondo l’art. 1 della suddetta, il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia, cioè la REMS, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate a fare fronte alla sua pericolosità sociale. Inoltre, viene istituito l’obbligo, per il giudice, di motivare, punto per punto, la scelta di applicare una misura di sicurezza detentiva all’interno della REMS, considerata come extrema ratio rispetto alla possibilità di una gestione del paziente reo all’interno dei servizi del DSM sul territorio. Il giudice, infatti, per giustificare la custodia del paziente in REMS per un periodo di tempo considerevole, dovrà accertare la sussistenza di tre presupposti tra loro interdipendenti:

la probabilità che il soggetto sospenda volontariamente le cure, in assenza di misura di sicurezza ovvero se sottoposto a misura non detentiva;

la probabilità che la sospensione delle cure induca a scompensi comportamentali;

la probabilità che da tali squilibri comportamentali scaturiscano agiti tali da determinare dei fatti reato.

In questo modo si privilegia quindi l’adozione di misure di sicurezza non detentive, per favorire percorsi riabilitativi e terapeutici che riducano l’opzione custodiale a una soluzione estrema e, comunque, motivata da parte della Magistratura, in modo da realizzare il mandato terapeutico-riabilitativo dei nuovi istituti;

Si assiste a una modificazione dell’accertamento della pericolosità sociale del soggetto, che viene ora accertata in base alle qualità soggettive della persona e non in base alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo, come avveniva prima, in accordo all’art 133 del Codice penale. Viene quindi imposto l’obbligo di riesame della pericolosità sociale degli internati nei vecchi OPG, prendendo in considerazione l’idea di affidarli ai servizi territoriali (Dipartimenti di Salute Mentale - DSM) e mantenendo nelle REMS solo i soggetti non dimissibili per elevata pericolosità sociale;

Viene imposto l’obbligo della creazione e dell’invio dei progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati (PTRI) di tutti i pazienti nelle REMS al Ministero della Salute e alla competente autorità giudiziaria entro 45 giorni dall’ingresso del reo in struttura. La ratio di questa disposizione è quella di ridurre il vecchio problema degli “ergastoli bianchi”, evitando l’istituzionalizzazione e la proroga sistematica delle misure di sicurezza in REMS mediante la realizzazione di un programma dettagliato in termini temporali, organizzativi e qualitativi rispetto alle necessità assistenziali del soggetto. Per i pazienti per cui è accertata una pericolosità sociale, il programma deve documentare in modo puntuale le ragioni che sostengono l’eccezionalità e il prosieguo del ricovero nelle REMS: si obbligano quindi le autorità, nel formulare i programmi, a prendere in considerazione l’internato e la sua necessità di cura, ma lo spirito della legge è quello di limitare l’utilizzo delle REMS ai soli soggetti non dimissibili, ossia a coloro che per le loro problematiche cliniche o di altro genere non potranno essere presi in carico dai DSM nel territorio;

La durata delle misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle REMS, non può superare la durata massima della pena detentiva prevista per il reato commesso, stabilita dall’art. 278 del Codice di Procedura Penale. Questo evidenzia l’impossibilità di giungere all’istituzionalizzazione dei rei affetti da malattia mentale, a eccezione dell’ergastolo, per cui non si applica la disposizione precedentemente detta;

Viene infine prevista dalla Legge 81/2014 una revisione dei programmi di realizzazione delle REMS, con riduzione del numero di posti letto previsto. In questo modo si sottolinea ulteriormente il carattere di questi istituti come soluzione residuale o extrema ratio, in condizioni di impossibile gestione del soggetto nei servizi di salute mentale territoriali.

2. Quadro attuale della Sanità Penitenziaria
in Italia: le REMS attive e l’organizzazione aziendale

2.1. Dati generali sulle REMS attive in Italia

Alla data di maggio 2019, secondo il XV Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, le REMS attive sul territorio nazionale5,6, presentate nella Tabella 1, sono 30.




Come si può vedere nella Tabella, le 3 regioni sprovviste di una propria struttura (Valle d’Aosta, Umbria e Molise) si appoggiano – mediante accordo interregionale – alle REMS di altre regioni (rispettivamente Lombardia, Toscana e Abruzzo), rinunciando alla propria parte di importo economico fornito dal Ministero della Sanità in favore della regione ospitante. Solo una parte dei posti letto delle REMS ospitanti viene riservata ad autori di reato provenienti dalle altre regioni (per esempio, 4 posti letto forniti da Castiglione delle Stiviere alla Valle d’Aosta)5.

Cinque REMS sono strutture private convenzionate con le Aziende sanitarie che sostengono, anche grazie a un apposito fondo ministeriale, i costi di ricovero dei pazienti: in questo gruppo rientrano le due REMS piemontesi, a Bra e a San Maurizio Canavese, quella ligure di Genova Prà, la marchigiana Montegrimano e quella pugliese a Carovigno. In un solo caso, a Castiglione, la REMS coincide, anche strutturalmente, con il vecchio OPG, mentre gli altri 4 OPG presenti sul suolo italiano (Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Aversa e Montelupo Fiorentino) sono stati dismessi e sono in attesa di una riconversione funzionale.

Tutte le REMS hanno un limite massimo di posti letto, fissati per legge a 20, sebbene possa essere aumentato mediante la creazione di un sistema poli-modulare di più REMS all’interno della stessa struttura – come nel caso di Castiglione – in cui vige un’impostazione simile a quella dei reparti/unità funzionali presenti negli ospedali giudiziari tedeschi.

Si sottolinea che, al netto dei dati di gestione disponibili fino al 2018, in nessun caso, il limite massimo di posti letto è stato superato, senza quindi determinare mai situazioni di sovraffollamento. Gli internati effettivamente ricoverati in REMS nel 2018 sono stati 629 (in lista d’attesa 603 persone delle quali molte concentrate nelle Regioni del Sud: 114 solo in Sicilia, 67 in Calabria, 86 in Campania).

Secondo quanto riportato nel XV Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone5, non sembra impellente, per il momento, la necessità di un aumento del numero dei posti letto totali in tutte le REMS ma, al contrario, è necessario un potenziamento dei servizi psichiatrici territoriali, soprattutto nel Meridione, per garantire percorsi adeguati di cura e riabilitazione, arrivando a convincere anche i giudici più refrattari che la REMS può e deve essere l’extrema ratio – l’ultima spiaggia – quando davvero non esistono virtuosi percorsi di cura sul territorio.

Dei 629 ospiti ricoverati in REMS nel 2018, 249 (39,5%) erano le persone in misura di sicurezza provvisoria (corrispondente alla custodia cautelare in carcere per gli imputabili): questo sembra indicare la facilità con cui le Procure chiedono (e i giudici per le indagini preliminari dispongono) il ricovero in REMS, in attesa dell’esito processuale e prima di avere a disposizione le risposte dei periti in tema di infermità mentale. Questo atteggiamento “custodiale” rischia di far ospitare nelle REMS persone poco conosciute dai servizi territoriali e dagli stessi operatori della REMS.

Un importante strumento di monitoraggio delle REMS è costituito dall’“Osservatorio sul superamento degli OPG e sulle REMS”5, fondato dal Comitato StopOPG, che – dal 2016 – visita regolarmente le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza sul territorio italiano, pubblicando interessanti report che raccolgono informazioni sui pazienti, sul personale e sulle caratteristiche strutturali delle residenze. Tutti i report sono pubblicati e disponibili all’indirizzo web www.stopopg.it

Dai report del Comitato StopOPG emerge come l’organizzazione dei posti letto e dei servizi disponibili vari in maniera significativa tra le diverse REMS delle regioni italiane: ciò non permette di ricostruire una rappresentazione della struttura residenziale tipica. Per fornire al lettore un’idea precisa della gestione interna di questi nuovi istituti forensi, la breve trattazione a seguire esamina nei particolari le singole residenze presenti nella penisola al momento.

2.2. Abruzzo: REMS di Barete

Secondo la Seconda Relazione Semestrale sulle attività svolte dal Commissario unico per il superamento degli OPG6 e il rapporto StopOPG del 20167, la REMS di Barete (aperta nel maggio del 2016 e collocata appena fuori dal centro del paese) è costituita da una palazzina a due piani con un seminterrato, circondata da uno spazio verde recintato da reti di separazione, per mantenere la privacy tra donne e uomini. Non presenta nessuna grata o inferriata alle finestre, alle terrazze, alle porte finestre, nell’ottica di una struttura aperta e lontana dall’ideale dei precedenti OPG. Al piano seminterrato sono collocati una mensa, uno spazio di lavanderia utilizzato dai residenti, sale di incontro con le famiglie e di colloquio con magistrati e avvocati e spazi riabilitativi sportivi, utilizzati dagli internati in maniera libera o in attività strutturate con associazioni di volontariato esterne, che collaborano con la REMS in modo regolare e continuo. Il primo e secondo piano sono organizzati in appartamenti per gli internati con un soggiorno con TV e spazio cucina, stanze da letto (a 1 o 2 letti) e bagni. Ogni appartamento può ospitare da 1 a 5 persone (per un totale di 20 posti letto). La tipologia degli arredi è curata e di tipo civile e alle finestre non ci sono chiusure, nè reti o inferriate, come avviene per la terrazza del primo piano, accessibile liberamente ai residenti. Negli appartamenti mancano le serrature, presenti solo nei bagni (dove viene comunque garantita la privacy dei detenuti) e di notte le porte d’ingresso rimangono socchiuse, per permettere le visite ispettive degli operatori del turno di notte. Gli spazi degli operatori sanitari sono costituiti da due ambulatori medici e una segreteria al primo piano e una infermeria al secondo piano, mentre, per quanto riguarda il personale penitenziario, è presente all’ingresso della REMS una guardia giurata non armata e un monitor per il controllo degli spazi esterni.

Per quanto riguarda il rapporto tra la REMS di Barete e la Magistratura, i permessi di uscita per attività riabilitative al di fuori della residenza vengono ottenuti per la durata dell’intera attività e ogni mese viene inviato al Magistrato resoconto della stessa. I soggetti che hanno ottenuto il permesso possono uscire dalla REMS per eseguire esclusivamente le attività abilitative approvate e con l’accompagnamento obbligatorio di un operatore sanitario.

L’accoglienza di nuovi internati nella REMS di Barete è concordata con il personale penitenziario e avviene solo in presenza dei 2 specialisti psichiatri: quindi solo esclusivamente nelle ore diurne dei giorni feriali. A parte le pratiche di immatricolazione svolte dal personale penitenziario, tutte le altre pratiche amministrative sono svolte dal personale sanitario della REMS.

Per quanto riguarda il rapporto con i servizi di salute mentale generale, tutti gli internati della REMS di Barete hanno, nei tempi regolamentati, specifici progetti terapeutico-riabilitativi concordati tra REMS e DSM di competenza territoriale, finalizzati alla progressiva dimissione degli ospiti della struttura per permetterne la gestione direttamente sul territorio.

2.3. Basilicata: REMS di Pisticci

La REMS di Pisticci è operativa dal 27/04/2015, presenta 10 posti letto e in questi anni ha ospitato pazienti calabresi e lucani, sia di sesso maschile che femminile: una volta inaugurata la struttura di Santa Sofia d’Epiro in Calabria, è stato avviato un lento riequilibrio dei pazienti presenti nelle due REMS, in modo da proteggere la struttura dal sovraffollamento6. Per dare adeguata risposta alle esigenze di cura delle donne autrici di reato e per offrire loro una adeguata ospitalità nelle REMS, i responsabili delle REMS della Puglia hanno proposto di inserire le donne presenti nelle REMS pugliesi e calabresi all’interno della REMS lucana. Pisticci, secondo quanto proposto dalla Puglia, potrebbe diventare, nei prossimi anni, una REMS nella quale confluiranno solo le pazienti di sesso femminile di Basilicata, Calabria e Puglia, sebbene questo progetto non sia stato ancora del tutto attuato. Questa proposta confliggerebbe con il principio di territorialità, ma potrebbe evitare una condizione di isolamento delle ospiti e di mancanza di rapporti con altre donne. Ciò rappresenta, infatti, uno dei problemi principali delle REMS provvisorie del Meridione, alcune delle quali al momento non sono attrezzate per gestire queste situazioni e hanno spesso la presenza di una sola donna. Nella struttura di Pisticci non si effettuano di base contenzioni fisiche o meccaniche degli ospiti6.

2.4. Calabria: REMS di Santa Sofia d’Epiro

La REMS calabrese di Santa Sofia d’Epiro, in provincia di Cosenza, è stata aperta alla fine di settembre 2016 e ha già dovuto affrontare varie difficoltà gestionali, a causa di carenze di personale sanitario e di vari episodi di aggressività che hanno portato diversi pazienti a danneggiare la struttura. La struttura è dotata di 20 posti letto e, come precedentemente detto, si è fatta carico di accogliere gli ospiti calabresi della REMS di Pisticci in Basilicata, dopo la sua apertura. Nella struttura di Santa Sofia d’Epiro non si effettuano di base contenzioni fisiche o meccaniche degli ospiti. Nella struttura non sono presenti donne attualmente, a causa della disposizione del progetto di divisione per sesso degli ospiti maschili e femminili con la REMS di Pisticci e le strutture residenziali pugliesi. L’équipe socio-sanitaria della struttura ha riportato nei vari rapporti con le istituzioni giuridiche e sanitarie diverse problematiche gestionali, come l’assenza di ufficiali delle Forze dell’Ordine in struttura, la mancanza di misure di contenzione abitualmente usate nella prassi psichiatrica e l’impossibilità di mantenere un collegamento adeguato con i servizi di salute mentale territoriali e la Magistratura. Tale situazione non permette di svolgere ulteriori e fondamentali attività riabilitative con gli ospiti come borse di lavoro, attività ergoterapeutiche e/o reinserimento sociale nel territorio, a causa del costante stato di allerta e di emergenza che coinvolge tutto il personale e che influisce sull’operatività stessa6.

2.5. Campania: REMS di Mondragone, Calvi Risorta, Vairano Patenora, Roccaromana e San Nicola Baronia

In Campania sono attualmente presenti 4 REMS in funzione, tutte aperte nel periodo che va da aprile a dicembre 2015, per un totale di 68 posti. È importante segnalare che, fin dalla sua apertura, la REMS di Calvi Risorta è andata progressivamente a sostituire l’attività della REMS provvisoria di Roccaromana che ha attualmente cessato la propria attività6.

La REMS di Calvi Risorta6,8, aperta in maniera provvisoria il 18/06/2015, è diventata definitiva il 21/12/2016, sostituendo, senza soluzione di continuità, la REMS provvisoria di Roccaromana, come precedentemente detto. Ha sempre avuto 20 posti letto (17 uomini e 3 donne) e il suo bacino d’utenza comprende la regione Campania. Insieme alle altre 2 REMS dell’ASL di Caserta (Mondragone e Vairano Patenora), essa non fa parte delle strutture del DSM, ma della “UOSD di salute mentale penitenziaria e superamento OPG” dell’UOC “Tutela Salute in Carcere”. La struttura è inserita nel tessuto urbano di Calvi, con intorno abitazioni e negozi. Ciò, unito al fatto che presenta una bassa recinzione esterna e non vi sono, in tutto il perimetro e all’interno, sbarre o inferriate, assegna alla REMS di Calvi Risorta un aspetto non custodiale e perfettamente integrato con la comunità attorno. Solo l’ingresso con cancello esterno è chiuso, mentre le porte della struttura sono aperte. I visitatori (familiari e amici degli ospiti) entrano su richiesta e i pazienti possono effettuare più colloqui a settimana: si indica il pomeriggio come preferenziale (ciò non è limitante) per permettere le attività sanitarie, ma sono previste eccezioni; di domenica e nei festivi è garantita ampia disponibilità in tutto l’arco della giornata. La struttura è articolata su due piani e al piano terra si trovano gli studi e i locali del personale, la sala riunioni, la cucina, la sala refettorio e ampi locali (open space) con sedie, divani, TV, oggetti ricreativi e macchine erogatrici di bevande calde e fredde. Al primo piano si trovano le stanze dei pazienti (2 singole, di cui una per disabili e 9 doppie, tutte con bagno interno) e una sala interna dedicata ai fumatori. Il movimento all’interno della REMS di Calvi da parte dei pazienti è abbastanza libero: possono uscire nel giardino esterno, attrezzato con panche e tavoli, e muoversi negli spazi interni, tutti aperti, a eccezione di alcuni locali del personale. Le camere da letto restano aperte e accessibili, anche se in alcune ore del giorno i pazienti sono scoraggiati dal personale a rimanere a letto. I pazienti non possono cucinare all’interno delle camere, il caffè o il the vengono preparati nella cucina della REMS, mentre i pasti vengono confezionati e conferiti da ditte esterne.

In questa struttura residenziale non vige il Regolamento Penitenziario, nel rispetto dell’Accordo in Conferenza Unificata del 26.2.2015, che prevede una prospettiva ampliata nel godimento dei diritti nella REMS.

Il rapporto con il DSM di provenienza territoriale degli utenti è riferito, in genere, come buono, anche se con alcuni casi vi sono state difficoltà e ritardi nell’elaborazione del PTRI e nella presa in carico.

La lista di attesa per l’ingresso nelle REMS della Regione Campania è regionale ed è gestita secondo criteri, definiti con delibera della Giunta regionale n. 716/2016, che non si limitano al mero rispetto dell’ordine cronologico di assegnazione, ma valorizzano i bisogni di salute, la disponibilità di progetti assistenziali alternativi alla REMS e la tipologia di misura (provvisoria/definitiva). La lista di attesa, come tutte le altre attività inerenti le misure di sicurezza e la tutela della salute mentale in carcere, sono trattate e definite da un gruppo regionale istituzionale, composto da tutte le ASL, l’Amministrazione Penitenziaria e l’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna, che si riunisce con frequenza costante settimanale.

In questa REMS è possibile l’esecuzione di Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO) con ricovero nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) territoriale, in caso di eventi critici e di acuzie psichiatriche non gestibili in sede. Questa REMS presenta un elevato turnover, un buon indicatore che segnala un trend positivo circa la transitorietà della permanenza nella struttura e l’avvio di percorsi di cura esterni per la reintegrazione sociale degli individui.

Per quanto riguarda il personale, nella struttura lavorano 3 medici psichiatri con contratto di specialistica ambulatoriale a cui si aggiunge il medico responsabile dipendente dell’ASL, 16 infermieri professionali, 11 OSS, 1 terapista della riabilitazione psichiatrica, 1 assistente sociale a tempo pieno, 2 psicologi, 1 personale amministrativo part-time e 4 addetti alla portineria.

Per quanto riguarda le attività riabilitative svolte dagli utenti, sono disponibili occupazioni riabilitative esterne (sia individuali sia di gruppo) con operatori, presso centri commerciali, l’ufficio postale comunale o la banca cittadina, e l’uscita dei pazienti dalla REMS è riferita come una priorità dei PTRI. È importante segnalare che, al momento, in questa residenza non sono attive convenzioni con associazioni di volontari e il sacerdote del paese celebra al mercoledì la messa in struttura, con partecipazione volontaria degli utenti.

I permessi di uscita vengono concessi con un’autorizzazione preventiva per più uscite previste dal PTRI oppure di volta in volta e, per quanto riguarda le uscite sanitarie, non è necessario chiedere permessi.

È stato segnalato dagli operatori della REMS di Calvi che, nonostante gli Accordi tra Regione e Uffici Giudiziari, sia la Magistratura di cognizione che quella di sorveglianza optano preferibilmente per misure di sicurezza detentive, quando invece sarebbe possibile adottare misure non detentive, sia per prevenire l’ingresso in REMS che facilitare la dimissione alle strutture territoriali di sanità mentale, quando possibile8.

La REMS di Vairano Patenora6,8 è provvisoria e in via di superamento (nell’ambito del programma regionale di riduzione delle REMS e potenziamento dei DSM, con prioritario riferimento all’offerta di servizi per persone alle quali è applicata una misura di sicurezza non detentiva). È stata aperta il 06/12/2015 con disponibilità di 12 posti letto (tutti destinati a uomini) e il bacino d’utenza è quello della Regione Campania. Fa parte di una struttura che ospita anche un Servizio Intermedio Residenziale Psichiatrico (SIR) e le persone (operatori e pazienti) condividono gli stessi spazi e attività in comune. La struttura è ubicata in una zona collinare del comune, circondata da un ampio prato, apparentemente isolata, ma in realtà è a pochi minuti a piedi dal centro abitato e dalla stazione FS (con bus da e per il paese) e vicina all’uscita autostradale. Anche qui, come a Calvi Risorta, la struttura presenta un aspetto non custodiale e i visitatori (familiari, amici dei pazienti) entrano su richiesta e gli ospiti possono effettuare più colloqui a settimana, con le medesime eccezioni. La struttura è articolata su due piani e al primo piano si trovano le stanze di degenza dei pazienti delle due strutture: la REMS è dotata di 4 stanze triple tutte con bagni interni, e la SIR di 2 stanze doppie e una quadrupla con bagni interni. Al piano terra vi è una sala interna dedicata ai fumatori, gli studi e i locali del personale, la cucina, la sala refettorio e alcuni locali con sedie, divani e TV. Il movimento all’interno della REMS di Vairano da parte dei pazienti è libero: possono uscire nel giardino esterno, attrezzato con panche e tavoli, e muoversi negli spazi interni, tutti aperti, a eccezione di alcuni locali del personale. Le camere da letto restano aperte e accessibili durante tutta la giornata, anche se i pazienti vengono sollecitati a non restare a letto durate il giorno.

Anche in questa struttura non vige il Regolamento Penitenziario, nel rispetto dell’Accordo in Conferenza Unificata del 26.2.2015, che prevede una prospettiva ampliata nel godimento dei diritti nella REMS.

Il rapporto con il DSM di provenienza degli internati è riferito, in genere, come buono, anche se in alcuni casi vi sono state difficoltà e ritardi nell’elaborazione del PTRI e nella presa in carico. Anche a Vairano è possibile eseguire TSO con ricovero nel SPDC territoriale, sempre e solo nei casi di acuzie psichiatriche non gestibili nella struttura.

Il personale è composto da 2 medici psichiatri con contratto di specialistica ambulatoriale più il medico responsabile, dipendente dall’ASL, 9 infermieri professionali, 10 OSS, 1 terapista della riabilitazione psichiatrica (a contratto a tempo determinato nella SIR, ma impiegato anche nella REMS), 1 assistente sociale a tempo pieno, 1 psicologa, 1 amministrativo part-time e 2 addetti alla portineria, presenti solo nel turno diurno.

Nella REMS di Vairano si svolgono solo attività riabilitative esterne, sia individuali che di gruppo, simili a quelle presenti nella struttura di Calvi e i permessi di uscita vengono sempre concessi con un’autorizzazione preventiva per più uscite previste dal PTRI, oppure di volta in volta8.

La REMS di Mondragone6,9 ospita 16 posti letto (dedicati esclusivamente, al momento, a pazienti di sesso maschile) ed è, attualmente, una struttura provvisoria. È contenuta in un istituto che funge anche da centro diurno della UOSM dell’ASL di Caserta, cui fa riferimento insieme a Calvi Risorta e Vairano Patenora. Il fatto che i posti della REMS siano inseriti in strutture residenziali e diurne del DSM, già preesistenti, dove gli ospiti si mescolano e si integrano con i pazienti del DSM in attività proprie di quel servizio, usano gli stessi luoghi, partecipano alle stesse attività, si rivolgono agli stessi operatori, permette una maggiore integrazione degli utenti della struttura con la comunità territoriale. Questa residenza non presenta un aspetto esterno di tipo custodiale, come le altre REMS della zona del casertano, con assenza di sbarre alle finestre o di elevate mura verso l’esterno. La struttura presenta un sistema di videosorveglianza per gli spazi esterni e i corridoi interni, ma senza un vigilante di controllo dei monitor costantemente impiegato. Gli utenti hanno la possibilità di eseguire attività riabilitative all’esterno della struttura, ma solo se accompagnati da un educatore e in accordo con il loro PTRI. Nella struttura di Mondragone non vengono praticate contenzioni fisiche né meccaniche9.

La REMS di San Nicola Baronia6 ospita 20 posti letto (dedicati esclusivamente, al momento, a pazienti di sesso maschile), è stata inaugurata nel dicembre 2015 ed è localizzata nel centro del comune, a stretto contatto con la comunità territoriale. Dalla visita, nel 2018, del Garante dei Detenuti campano, si apprende che i PTRI e l’accoglienza degli utenti viene effettuata in stretta sinergia con il CSM competente regionale e la struttura, accanto alla funzione di custodia, espleta anche funzione terapeutico-riabilitative di cura attraverso diverse attività che hanno come finalità il recupero, la risocializzazione e il sostegno dei pazienti psichiatrici. Essa rispetta gli spazi di socializzazione, è dotata di diversi laboratori, di una cappella e un corso di teatro. L’ambiente restituisce la percezione della presenza di attività integrative fondamentali per i detenuti affetti da malattia mentale, così come la possibilità – per la metà degli ospiti – di potersi recare all’esterno per un caffè al bar o per la spesa, permettendo loro di potersi riappropriare di piccoli gesti e spazi di autonomia. Nella struttura di San Nicola Baronia non vengono praticate contenzioni fisiche né meccaniche. La REMS di San Nicola Baronia nel 2018 è stata inoltre protagonista del Progetto “Rei81”, organizzato all’ex Carcere Borbonico di Avellino, grazie a una mostra fotografica realizzata dal fotografo irpino Annibale Sepe che ha insegnato a usare la macchina fotografica agli ospiti della struttura nel corso dell’anno, favorendo una nuova forma di arteterapia. La mostra ha avuto l’obiettivo di raccontare la nuova vita degli ospiti di San Nicola Baronia, grazie alla costruzione di relazioni all’interno della struttura e con la comunità di San Nicola Baronia, che li ha gradualmente accolti6.

2.6. Emilia-Romagna: REMS “Casa degli Svizzeri”
di Bologna e Casale di Mezzani

Nella REMS di Casale di Mezzani (frazione di Sorbola Mezzani) sono presenti 10 posti letto, mentre nella REMS “Casa degli Svizzeri” di Bologna sono disponibili 14 posti letto: nonostante non siano al momento avvenuti periodi di sovraffollamento delle due strutture, è in programma un aumento dei posti letto a 40 totali per l’Emilia-Romagna10. La maggior parte dei pazienti ospitati all’apertura delle due REMS appartenevano all’OPG di Reggio Emilia e, solo successivamente, sono giunti nuovi ospiti precedentemente in libertà, ma in una percentuale molto bassa rispetto alle altre Regioni. Ciò dimostra che la Magistratura in questa regione ha ben presente le indicazioni legali di ricorso alla misura detentiva in REMS come extrema ratio. Anche se a Bologna risultano essere stati accolte 3 persone della Toscana, la Regione Emilia-Romagna si propone di accogliere solo cittadini emiliano-romagnoli, secondo il principio di “territorialità” stabilito dalla Legge 81/2014. Tra le due REMS si osservano differenze in relazione alle soluzioni architettonico/strutturali (per es., presenza o meno di recinzioni, blindature, telecamere, dimensioni delle stanze, ecc), all’ubicazione (per es., lontane o vicine ai centri abitati), all’organizzazione degli spazi e del lavoro, al rapporto con la magistratura e al rapporto con i servizi territoriali di salute mentale.

La REMS di Casale di Mezzani10 è sita nel comune, a poca distanza da Parma, ed è un edificio liberty ristrutturato appositamente per l’attuale destinazione d’uso. La struttura è suddivisa su due piani con uno spazio verde all’esterno; al piano terra vengono svolte le attività riabilitative, mentre al primo piano sono site le camere degli ospiti. La struttura si presenta anche esternamente più come un luogo di cura che come un ambiente detentivo e le cancellate presenti all’esterno non sono particolarmente impattanti. Per le finestre, al posto delle sbarre, sono stati utilizzati vetri antisfondamento e non possono essere aperte dall’interno. Tuttavia, è attivo un sistema di videosorveglianza, sia perimetrale che nella zona giorno, ed è presente una guardia giurata (non armata) che svolge anche compiti di portineria. Tali accorgimenti sono stati convenuti con la Prefettura e con le Forze dell’Ordine, con le quali si attesta esserci un buon rapporto. All’interno della REMS di Casale sono presenti diversi spazi per le attività ricreative, compresa una sala per le tecniche di “de-escalation” (una serie di interventi basati sulla comunicazione verbale e non verbale che hanno l’obiettivo di diminuire l’intensità della tensione e dell’aggressività nella relazione interpersonale) e una sala per il massaggio shiatsu degli ospiti.

Sono invece più visibili i segni del mandato custodiale nella REMS di Bologna, denominata “Casa degli Svizzeri” che sorge all’interno di una struttura di recente costruzione cui si accede attraverso un ingresso vigilato da un addetto alla sicurezza (armato) e presenta un giardino, dotato però di una recinzione carceraria munita di filo spinato. Tale recinzione è stata installata – su pressione di Prefettura e Carabinieri – dopo un episodio, verificatosi in data 25 aprile 2015, consistente nella “fuga” di un ospite, conclusasi dopo qualche ora con il ritrovamento del paziente. Non vi sono però sbarre alle finestre, le porta principale verso il giardino è aperta, anche se dotata di sistema di allarme, e la videosorveglianza è solo esterna. La struttura è disposta su 4 piani e la zona giorno e la sala fumatori vengono chiuse alle ore 24, mentre le camere da letto sono sempre aperte. Il giardino è fruibile dagli ospiti solo se accompagnati da personale della struttura. Sia a Bologna che a Casale di Mezzani le camere da letto sono doppie o triple, ma sussistono anche due camere singole.

Differenze significative tra le due REMS emiliane sono emerse poi in relazione al rapporto con la Magistratura che risulta essere più efficace nel far prevalere la funzione sanitaria su quella custodiale nella struttura di Casale di Mezzani, per una migliore negoziazione tra Regione, AUSL, DSM e Magistratura. In ogni caso, in entrambe le REMS sono concesse attività riabilitative esterne alla struttura, anche mediante un permesso cumulativo per le attività presenti nel PTRI. A Casale di Mezzani le riunioni e i programmi riabilitativi si svolgono spesso in presenza delle cooperative sociali, delle associazioni di volontariato e di promozione sociale, che svolgono varie attività, come teatro (“Cooperativa Giolli” e Fondazione LENS), escursionismo e tutela ambiente (Legambiente e “Cooperativa Ispa”) o shiatsu. Tale apertura verso l’esterno va considerata positivamente e favorisce un raccordo con il territorio, anche per facilitare le dimissioni e il reinserimento nella società degli ospiti, secondo quanto stabilito dalla Legge 81/2014. La partecipazione alle attività è libera e volontaria, non obbligatoria. Le visite dei familiari avvengono fino a 2 volte a settimana, non vige il regolamento penitenziario e le telefonate sono libere e a richiesta degli ospiti. A Bologna tutte le attività vengono gestite direttamente dalla struttura, anche se sono previste attività esterne in collaborazione con soggetti terzi del privato sociale. In entrambe le REMS gli operatori sanitari non portano il camice e in nessuna delle due strutture si pratica la contenzione, sebbene sia lecito ricorrere al TSO o alla chiamata delle Forze dell’Ordine in caso di situazioni acute.

Per quanto riguarda il rapporto con i servizi di salute mentale del territorio, a Casale di Mezzani vi è un raccordo con il territorio (CSM di Parma) e vi è un buon inserimento della REMS nella rete dei servizi. I programmi sono individualizzati ed è stato implementato un lavoro di formazione sia per gli ospiti della REMS che per i residenti nel territorio sulla natura della struttura, in modo da far comprendere alla popolazione generale la necessità di collaborazione nel reinserimento sociale di questi soggetti. A Bologna il rapporto con gli altri servizi di salute del territorio viene definito buono, più agevole con il DSM di Bologna che con la AUSL, sebbene diversi servizi facciano fatica a prendersi in carico ospiti provenienti dalle REMS per lo stigma di “pericolosità sociale” ancora esistente. Anche in Emilia-Romagna esistono difficoltà per la formulazione/attuazione dei PTRI da parte dei servizi territoriali finalizzati ad alternative alla misura detentiva. Infatti, rispetto ai termini di legge dei 45 giorni dopo l’ammissione nella REMS, vi è in primis un certo ritardo di formulazione dei piani terapeutico-riabilitativi10.

2.7. Friuli-Venezia Giulia: REMS di Aurisina, Maniago e Udine

In Friuli è presente un modello originale di gestione delle REMS che prevede l’inserimento delle persone destinatarie di misure di sicurezza nelle strutture psichiatriche del territorio, caratterizzate da un elevato livello di trattamento e con un riferimento marginale alla custodia. Prima di rappresentare le peculiarità presenti nelle tre REMS della regione Friuli-Venezia Giulia, bisogna sottolineare che è stata prevista, a livello regionale, una diminuzione del modello di REMS da 20 posti letto adottato nelle altre regioni, tenendo in considerazione il fabbisogno storico rispetto all’OPG della regione Friuli. I 6 posti stabiliti sono stati poi suddivisi in tre subunità territoriali, Maniago, Udine e Aurisina, REMS provvisorie da 2 posti ciascuno. Si è pensato e poi strutturato un modello di REMS “diffusa”, che funziona come un sistema unico, con possibilità di sinergie e di movimenti interni (su autorizzazione della Magistratura) tra le tre strutture, che agiscono come una REMS unica. La co-progettazione con i livelli regionali ha riguardato sia gli aspetti strutturali, con la riduzione al minimo necessario degli aspetti “di sicurezza”, e comunque reclusivi che i protocolli con Prefettura e Magistratura. A livello regionale, tutta la REMS “diffusa” è effettivamente integrata con i DSM, lavora in rete con i servizi dipartimentali e attivamente dialoga e coopera con tutti i servizi di salute mentale coinvolti (il CSM di competenza della persona innanzitutto), evitando la costituzione di un servizio dedicato completamente separato dal resto della rete6.

La REMS di Aurisina11, aperta nel giugno del 2015, è allocata in un comune della provincia di Trieste, in una struttura del DSM: una palazzina a tre piani con uno spazio verde circostante, dal 1975 sede del CSM territoriale e, dal 2006 a oggi, luogo di attuazione di programmi di riabilitazione e formazione al lavoro per utenti del DSM e di programmi di integrazione con il territorio comunale. Si accede alla struttura attraverso un cancello che rimane sempre aperto e non sono presenti guardie giurate. Aperta è pure la porta di accesso alla palazzina e il giardino mostra le recinzioni originarie dei muri, senza però la presenza di reti o di filo spinato soprastante, ma è presente lungo il perimetro di cinta un sistema di videosorveglianza. In generale questa descrizione conferma la scarsa natura detentiva della struttura di Aurisina. Il giardino nella parte posteriore è attrezzato a orto, dove lavorano utenti del DSM in borsa di formazione al lavoro. Al piano terra della palazzina è presente un open space per incontri e spazi per laboratori riabilitativi e formativi (ex-laboratorio di cucina sotto la guida di uno chef della Cooperativa “Lavoratori Uniti”, volta a formare alcuni utenti nell’allestimento di catering). Al primo piano della palazzina sono presenti 2 stanze singole, una stanza per i farmaci e 2 bagni che costituiscono lo spazio dedicato alla REMS vera e propria anche se, di norma, e salvo indicazioni specifiche contrarie da parte del Magistrato, vi è la possibilità, per le persone ospitate nella REMS, di attraversamento e utilizzo di tutti gli spazi della palazzina. Non sono presenti inferriate né sistemi di chiusura alle finestre e il terzo piano è attrezzato come “spazio benessere”, utilizzato da utenti del DSM e da cittadini del territorio.

Il rapporto con la Magistratura di sorveglianza e di primo grado è costante e fluido, consolidato e condiviso nel tempo e ciò determina di norma un filtro efficace all’applicazione di misure di sicurezza detentive e, di contro, l’eventuale applicazione di misure di sicurezza non detentive.

I CSM della regione Friuli hanno stretto un buon rapporto con la REMS di Aurisina e si connotano come “registi” dei programmi di cura dei cittadini residenti in un territorio con servizi di prossimità fortemente radicati nel territorio, in sinergia con le istituzioni dello stesso. Questo è dimostrato dal fatto che la REMS di Aurisina svolge le proprie funzioni per i DSM di Trieste e di Gorizia11.

La REMS “provvisoria” di Maniago6,9 è parte integrante del programma regionale di superamento dell’OPG, in attesa della realizzazione della REMS “definitiva” di 4 posti letto, contro i 2 attuali. È ubicata al secondo piano dello stabile dipartimentale di Via Colle in Maniago, che ospita l’omonima Comunità residenziale di integrazione sociale per 7 posti letto totali. Il personale sanitario previsto per la REMS e quello della Cooperativa che gestisce l’appalto di assistenza alla Comunità Residenziale, in integrazione con il locale CSM, agiscono in sinergia per tutti gli ospiti, che usufruiscono di spazi e attività comuni, nel rispetto delle disposizioni del Magistrato di sorveglianza. Poiché i 2 posti letto restano in carico agli operatori del CSM di competenza territoriale, la sede ospita gli operatori di riferimento per la realizzazione delle attività riabilitative contenute nel PTRI degli ospiti. La promiscuità con gli operatori del CSM ha permesso di ridurre al minimo le dinamiche istituzionali, di creare un clima collaborativo e disteso all’interno e di mantenere l’attenzione al reinserimento sociale degli ospiti9.

La REMS di Udine6 è stata aperta il 29 febbraio 2016 e prevede 2 posti letto che, per il momento, sono stati occupati solo a tempo parziale: per un periodo di tempo considerevole la struttura è rimasta vuota, anche grazie al principio di creazione della rete funzionale di un’unica REMS all’interno della Regione del Friuli-Venezia Giulia. Anche in questa struttura, visto il basso numero di ospiti, il lavoro viene individualizzato, in stretto e continuo collegamento con i servizi territoriali di competenza, sia di salute mentale, che con altri enti, come medici di base e servizio sanitario pubblico competente.

2.8. Lazio: REMS di Ceccano, Pontecorvo, Palombara Sabina e Subiaco

Il Lazio è la seconda regione per il maggior numero di posti presenti nelle REMS, pari a 91, anche grazie alla presenza di un complesso polimodulare di 2 REMS a Palombara Sabina che porta quindi il numero complessivo delle residenze a 5. Questo permette di coprire ampiamente la lista di attesa della Regione Lazio, senza giungere al sovraffollamento delle strutture6.

La REMS di Ceccano12 è stata aperta a novembre 2015 e contiene 20 posti letto (esclusivamente, al momento, per utenti di sesso maschile) e fornisce il bacino d’utenza della regione Lazio. La struttura è inserita all’interno di un’area del Presidio Socio-Sanitario di Ceccano (Distretto B dell’ASL di Frosinone), vicino al centro urbano. La recinzione esterna e la presenza in tutto il perimetro di sbarre in ferro assegnano alla struttura un aspetto decisamente custodiale che, inevitabilmente, influenza la sua percezione come una struttura detentiva più che sanitaria. Si aggiunga che l’ingresso è filtrato da addetti alla vigilanza, i quali videosorvegliano lo spazio perimetrale e interno. La connotazione della struttura è frutto della decisione della Regione Lazio di caratterizzare tutte le 5 REMS attivate in termini custodiali. I visitatori (familiari, amici dei pazienti) entrano solo se autorizzati e i pazienti possono effettuare fino a 4 colloqui a settimana. La struttura è articolata su tre piani: al piano terra si trovano la cucina, la sala refettorio e la sala comune con divani, TV, proiettore e qualche libro, al primo piano si trovano le stanze dei pazienti (2 singole e 9 doppie, tutte dotate di bagno interno) e la sala del personale; infine, al piano superiore sono localizzati gli uffici e una stanza di “de-escalation” (che viene riferita essere utilizzata non per “contenere” pazienti in crisi ma, al contrario, per ospitare temporaneamente i loro compagni di stanza). Il movimento all’interno della REMS da parte dei pazienti è parzialmente libero: possono scendere in autonomia le scale e uscire nel giardino esterno, attrezzato con panche e tavoli, al campetto da calcio e a un orto. Possono altresì accedere ai vari locali “comuni” (biblioteca, palestra, sala video) e le camere da letto restano aperte e accessibili; dalle ore 23.30 vengono chiuse e, per poter uscire, i pazienti devono citofonare. Infatti, le porte non sono dotate di maniglie e hanno un oblo, e nelle camere i mobili sono fissati a terra. I pazienti non possono cucinare nulla all’interno delle camere, e il caffè o il the vengono preparati nella cucina della REMS a orari prestabiliti. Va segnalato che la struttura dell’attuale REMS di Ceccano è provvisoria: è stata infatti ricavata da un padiglione che prima ospitava una comunità terapeutica, cui sono state aggiunte massicce grate alle finestre e davanti alla balconata che circonda le stanze di degenza. La nuova e definitiva REMS era in progetto sempre a Ceccano, ma deve essere ancora costruita.

Nella struttura viene applicato, con moderata flessibilità, il Regolamento Penitenziario, nonostante l’Accordo in Conferenza Unificata del 26.2.2015 preveda una prospettiva ampliata nel godimento dei diritti, come sarebbe stato richiesto dalla Magistratura di sorveglianza.

Il rapporto con i DSM di provenienza territoriale degli internati è riferito dagli operatori, in genere, abbastanza buono, anche se in alcuni casi vi sono difficoltà e ritardi nell’elaborazione del PTRI e nella presa in carico. La lista di attesa delle REMS del Lazio è regionale, come avviene anche in Campania, e quindi non è più relativa alla singola residenza. Gli operatori hanno riferito un problema abbastanza importante rispetto alla popolazione che ha transitato e che permane nella REMS di Ceccano; viene riportato infatti che, almeno per il 30%, i pazienti non sembrano presentare problemi psichiatrici tali da dover essere mantenuti in regime custodiale nella REMS, perché affetti da disturbi della personalità con associati comportamenti delinquenziali e la loro presenza disturba pesantemente le attività assistenziali e la vita stessa degli altri pazienti. Tale questione, che è stata evidenziata anche in altre REMS, merita attenzione ma non è tuttavia nuova: non è cioè tipica della fase attuale “post-OPG”, dato che si poneva infatti già quando erano in funzione il manicomio giudiziario e quello civile e attiene, in fondo, alle diverse concezioni della funzione e del mandato della psichiatria rispetto a quelli della giustizia penale. Nella REMS di Ceccano si possono eseguire i TSO con ricovero nel SPDC territoriale, in caso di acuzie psichiatriche con impossibilità di gestione all’interno della residenza. Il personale della struttura è composto da 3 psichiatri più il medico responsabile, da 12 infermieri professionali, 3 OSS, 1 terapista della riabilitazione psichiatrica, 1 assistente sociale in organico presso il DSM e 1 psicologo del DSM a fasce orarie, ma in essa non opera alcun personale amministrativo. A Ceccano si svolgono attività riabilitative esterne (sia individuali sia di gruppo) con operatori, come attività lavorative presso centri commerciali, ufficio postale o banca comunali, gelaterie, ma anche pesca sportiva, gite al mare o in luoghi di interesse culturale, cinema (questo gratuito per i pazienti) e partecipazione a progetti con cooperative sociali. Sono presenti anche corsi interni di alfabetizzazione e ri-alfabetizzazione, letture condivise e lettura dei quotidiani, tutti gestiti da associazioni di volontariato, e utili soprattutto per quella larga fetta di popolazione di utenti che è straniera (come accade anche in altre REMS laziali). L’uscita dei pazienti dalla REMS è riferita come una priorità dei PTRI, anche se la scarsità del personale è di ostacolo all’organizzazione di più attività esterne e questo ha portato a favorire l’entrata nella REMS di un’associazione di volontari che organizza il cineforum e del sacerdote del paese che celebra regolarmente la messa in struttura. I permessi di uscita vengono concessi di volta in volta, anche se per alcuni pazienti si è ottenuta una autorizzazione preventiva per due uscite mensili con l’accompagnamento degli operatori, ma non in maniera fissa rispetto ai singoli PTRI. Più complicata è invece la gestione dei permessi da richiedere al Tribunale di Latina per le persone destinatarie di misura provvisoria, ma per quanto riguarda le uscite sanitarie non è più necessario chiedere permessi12.

La REMS di Pontecorvo6,9 è operativa dall’01/04/2015 e ospita 11 posti letto: è importante segnalare che in questa struttura, per organizzazione gestionale, vengono ospitate solo pazienti di sesso femminile. Al momento è l’unica REMS – se non si considera il progetto futuro di organizzazione di Pisticci in Basilicata – a ospitare solo donne autrici di reato con problemi psichiatrici. Questa struttura porta inevitabilmente i segni visibili del mandato custodiale, come le altre REMS laziali, dato che è ospitata in uno stabile colorato, ma vi si accede attraverso un ingresso vigilato da un addetto alla sicurezza, con una porta metal detector; le finestre sono dotate di sbarre e le porte delle stanze da letto delle internate sono chiuse e non apribili dall’interno. La struttura presenta anche un ampio giardino, rovinato però da una impressionante recinzione carceraria. Nella REMS di Pontecorvo funziona un sistema di videosorveglianza per gli spazi esterni e i corridoi interni della struttura, con un vigilante 24 ore su 24 che controlla il monitor. Secondo l’Accordo tra Prefettura, Regione Lazio e ASL di Frosinone del 31/03/2015, il personale di vigilanza addetto all’incolumità dei pazienti e degli operatori è coordinato da un responsabile qualificato che, a sua volta, cura la formazione permanente degli addetti. La struttura è dotata di una camera di decompressione/“de-escalation” che non viene utilizzata per la contenzione fisica, non praticata nelle REMS della ASL di Frosinone. Così come previsto dal Regolamento interno della REMS, il suo utilizzo viene valutato dal medico di turno e disposto unicamente a tutela del paziente che pone in essere un comportamento violento, nel momento in cui tutte le altre strategie di negoziazione non sortiscono effetto positivo. La permanenza nella stanza è limitata al tempo minimo necessario alla risoluzione della crisi e sempre alla presenza di un’unità infermieristica. L’équipe sanitaria della REMS è composta da psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica, assistenti sociali, infermieri e operatori socio-sanitari. Sono presenti diverse attività riabilitative individuali e di gruppo e i progetti che si svolgono all’interno e all’esterno di queste strutture puntano all’insegnamento, al recupero e al potenziamento delle abilità sociali dei soggetti coinvolti. In particolare nel 2019, grazie all’Avviso pubblico “Promozione di attività culturali, sportive e ricreative da realizzare negli istituti penitenziari del Lazio”, le pazienti della REMS di Pontecorvo hanno avuto la possibilità di partecipare attivamente a un progetto intitolato “Il Cavallo Marco ed altri Eroi”, presentato dall’“Associazione Ippica di Atina” e da “Condotta Slow Food Valle di Comino”. Il titolo del progetto rendeva omaggio alla metafora di Marco Cavallo che, a distanza di più di 40 anni dalla sua nascita, non perde la sua attualità e rimanda a tutti coloro che convivono con la propria vulnerabilità e a coloro che si adoperano affinché i pregiudizi non abbiano la meglio9.

La REMS di Palombara Sabina6,13 è, come precedentemente specificato, una struttura poli-modulare formata da due REMS distinte da 20 posti letto ciascuna (riservati a utenti di sesso maschile), chiamate REMS “Merope” e “Minerva” (costruita solo in un secondo momento). Come altre strutture laziali, entrambe presentano un aspetto custodiale, sono dotate di numerosi dispositivi di sicurezza che limitano molto la libertà degli ospiti all’interno. Non sono dotate di un giardino esterno, ma di una terrazza con cinta di sbarre, aperta per i pazienti, che viene utilizzata anche come un’area fumo dagli utenti. Il personale delle due strutture è composto rispettivamente da 4 psichiatri ciascuna, con 5 tecnici della riabilitazione psichiatrica, 16 infermieri, 9 OSS e 1 coordinatore infermieristico unico per le due strutture.

Nella REMS “Merope”6 sono presenti diversi laboratori per attività risocializzanti, ludiche e sportive, sia interne alla residenza (fitness, cineforum, laboratorio di cucina, attività artistiche per l’abbellimento dei locali), che esterne (gite in montagna, attività di pet therapy in maneggio, mercatini di Natale, gite nei luoghi di interesse culturale), attraverso lo studio delle risorse del territorio cittadino dove insiste la REMS, ma anche attraverso l’utilizzo dei programmi riabilitativi dei servizi psichiatrici territoriali del DSM della ASL di Roma 5 (per es., il “Progetto Triathlon”). L’integrazione nel territorio ha permesso quindi di avviare un rapporto di fiducia con la cittadinanza e con l’amministrazione locale, tanto da ottenere l’uso del campo da calcio comunale a titolo gratuito per poter svolgere attività sportive all’aria aperta.

Il rapporto con la Magistratura viene riferito come funzionale e ottimo, tanto che le comunicazioni e le richieste dei permessi di uscita e di visite ai familiari per i pazienti ricoverati è facilitato.

Come a Subiaco, nella struttura “Merope” vi sembra essere un problema di fondi stanziati dalla Regione per l’implementazione degli obiettivi di reinserimento sociale e lavorativo dei soggetti internati, al fine di poter incentivare e gratificare la partecipazione degli utenti alle attività lavorative interne alla REMS, anche attraverso piccole remunerazioni (come avviene negli istituti di pena e come avveniva in OPG).

Nella REMS “Minerva”6, di più recente costruzione, i PTRI stilati per i pazienti hanno un’impostazione multidisciplinare tipica delle strutture più nuove presenti sul suolo italiano, tanto che comprendono l’impostazione di trattamenti farmacologici di nuova generazione, con un miglior profilo di tollerabilità, psicoterapia individuale e di gruppo, skills training e psicoeducazione, attività riabilitative che si svolgono sia all’interno (gruppo film, laboratori creativi, attività sportiva) che all’esterno della REMS (attività sportiva presso il campo da calcio comunale, gite culturali). Le attività terapeutiche e riabilitative sono calendarizzate su base settimanale: questo permette ai pazienti di avere una tabella ben scandita e di mantenere un rapporto ottimale con la comunità intorno alla REMS.

Recentemente l’ASL Roma 5 ha deliberato un Percorso Diagnostico-Terapeutico Assistenziale (PDTA), standardizzando l’iter per l’esecuzione degli accertamenti sanitari essenziali, al fine di garantire una presa in carico globale dei soggetti all’interno della struttura “Minerva” grazie all’esecuzione di esami ematici di routine, visite specialistiche e esami indicati per le patologie organiche degli ospiti detenuti. I Percorsi Terapeutico-Riabilitativi vengono strutturati sulla base delle indicazioni fornite dai CSM competenti per territorio, che si recano in REMS entro 45 giorni dall’ingresso e, successivamente, ogni 3-6 mesi, formulando progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati per ciascun utente.

La REMS “Minerva” è anche dotata di un assistente sociale a tempo pieno che permette di aiutare i pazienti, ove sussistano i requisiti, a sottoporsi all’accertamento dell’Invalidità Civile da parte delle Commissioni preposte. Inoltre, la ASL di Roma 5 ha istituito un Protocollo d’Intesa con il Tribunale di Tivoli per favorire, ove necessario, la nomina degli Amministratori di Sostegno per gli utenti delle due REMS di Palombara Sabina.

Come per la struttura gemella “Merope”, il rapporto con la Magistratura è di proficua collaborazione e disponibilità e le richieste di autorizzazione per attività esterne sanitarie, riabilitative e risocializzanti trovano rapida risposta; recentemente alcuni utenti stanno usufruendo di licenze che trascorrono in compagnia dei loro familiari, richieste da loro stessi e utili ai fini del piano di recupero riabilitativo. La REMS “Minerva” ha stabilito anche una collaborazione con enti di volontariato, quali la Caritas locale e con istituzioni culturali, come l’”Area Archeologica di Villa Adriana” e il “Frantoio Op Latium”, che hanno permesso visite gratuite ad alcuni degli ospiti autorizzati.

La REMS “Castore” di Subiaco6,13 è attiva dal 1.07.2015 e contiene 20 posti letto, senza indicazioni specifiche per il sesso degli utenti ospitati. La struttura è molto simile ad altre REMS laziali già descritte, con segni visibili del mandato custodiale ed evidenti e pesanti dispositivi di sicurezza, come ingresso vigilato da addetti di sicurezza (vigilanza privata), porta con metal detector, obbligo di consegna dei documenti, telefonini e borse, porte nelle stanze da letto degli internati dotate di oblò per guardare, chiuse di notte e non apribili dall’interno. Le camere da letto appaiono spoglie, con mobilio fissato al pavimento, e non presentano le telecamere di sorveglianza posizionate in tutta la struttura. Come nella REMS “Merope” di Palombara Sabina, non è presente un vero e proprio spazio esterno e le soluzioni trovate (terrazze blindate da sbarre) sono stigmatizzanti per gli utenti. Gli spazi per la mensa della struttura di Subiaco sono particolarmente angusti e i pazienti sono costretti a consumare i pasti della mensa ospedaliera, dato che la cucina interna è usata saltuariamente e non esistono corsi interni di cucina. A Subiaco esiste uno spazio fumatori anche al piano notte, dotato di aspiratori assolutamente inadeguati (come segnalato dagli operatori), anche perché la terrazza esterna è completamente cintata da sbarre – anche sul soffitto – tanto da dare l’impressione di una gabbia. Ogni paziente della REMS di Subiaco viene dotato, all’ingresso, di una card che gli permette di entrare solo nella propria camera (ma non di uscire): di notte, intorno a mezzanotte, le camere vengono chiuse e se la persona ha bisogno di uscire deve chiamare il personale infermieristico. La REMS di Subiaco è inserita in una struttura sanitaria, al piano terra e primo piano dell’ospedale cittadino e questo evita il totale isolamento della struttura. Nel piano organizzativo della struttura, sono presenti numerose attività riabilitative, alcune delle quali sono eseguite anche al di fuori della REMS; vi è mancanza di finanziamenti di tipo sociale, il che impedisce l’ingresso di associazioni, volontari e cooperative: questo limita fortemente sia il rapporto con la comunità che lo svolgimento di attività “socio-culturali”. Le attività esterne, per alcuni ospiti, sono autorizzate periodicamente dal Magistrato in quanto previste nel PTRI ma, in altri casi, i permessi sono concessi di volta in volta, senza però difficoltà gestionali segnalate con la Magistratura. Il personale è composto da 3 psichiatri, 5 tecnici della riabilitazione psichiatrica, 14 infermieri, 3 OSS e 1 coordinatore infermieristico.

In generale, il rapporto con i servizi del DSM sul territorio viene riferito dagli operatori come non facile, dato che vi è la necessità di sollecitare e attivare interventi anche presenti nel PTRI e concordati con i CSM13.

2.9. Liguria: REMS di “Villa Caterina” di Genova Prà

In Liguria, la REMS “Villa Caterina” di Genova Prà6 è stata aperta in data 08/02/2017, in evidente ritardo rispetto ad altre Regioni italiane. Con l’entrata in funzione della struttura, non solo si è riusciti a rispettare il principio della territorialità per gli autori di reato liguri affetti da malattia mentale che erano provvisoriamente ospitati in altre REMS, prevedendo il loro rientro nella propria regione di appartenenza, ma si è anche data risposta all’esigenza di diminuire la presenza di persone non lombarde nel sistema poli-modulare di Castiglione delle Stiviere. La struttura, controllata dal “Gruppo Fides” è dotata di 20 posti letto, anche se al momento solo la metà dei posti letto sono stati occupati in questi anni, segno di una momentanea scarsa necessità di posti letto per la Regione Liguria. Villa Caterina si trova a Prà, uno dei quartieri più verdi di Genova, con una posizione collinare privilegiata, che costituisce indubbiamente un fattore importante per il percorso terapeutico-riabilitativo dei soggetti, anche perché di fronte alla villa, poco distante, si trova il mare, senza la presenza di recinzioni, vetrate, muri che possano impedirne la vista. L’intera struttura è stata infatti progettata per regalare un senso di libertà alla persona: grandi spazi aperti, ambienti open-space, grandi vetrate che aprono la vista verso il paesaggio e donano relax agli utenti, che non si sentono soffocati e chiusi. La sala comune principale si trova al piano terra e su di essa si affacciano le camere e gli spazi comuni, divenendo così un luogo di incontro e di condivisione tra gli utenti della REMS ligure. L’edificio è nuovo e moderno, inaugurato nel 2013, e gode di camere singole o doppie dotate di ogni comfort, di locali studiati specificatamente per ospitare in totale sicurezza gli assistiti, come una sala da pranzo, una sala ricreativa con TV e stereo, utilizzabile anche per attività motorie, e una biblioteca. Per quanto riguarda il personale della struttura, è composto da un Direttore Sanitario, una direzione medica composta da 3 psichiatri, 2 psicologi (di cui uno con la funzione di Direttore di Comunità), 12 infermieri, 6 OSS, 1 educatore professionale e 1 assistente sociale a tempo pieno cui si affiancano saltuariamente tecnici esterni per la realizzazione di attività che richiedono una professionalità specifica. Le attività ludiche e sociali sono un fattore determinante del programma di cura del “Gruppo Fides” che gestisce Villa Caterina, perché sono parte integrante della vita di comunità e, coinvolgendo la persona, aiutano il suo reinserimento sociale successivo. Esempi di attività riabilitative presenti nella REMS ligure sono il gruppo espressivo condotto da una psicologa, diverse attività video, il gruppo di attività motoria, il gruppo di calcio e il laboratorio di lettura-scrittura. L’ampio spazio verde di cui Villa Caterina gode facilita le attività ludico-ricreative, durante le quali gli assistiti sono costantemente seguiti dagli educatori e dai tecnici esterni. Sono disponibili anche attività riabilitative esterne, come le borse lavoro, dopo che gli utenti hanno ottenuto i permessi dalla Magistratura: questo è reso possibile grazie al fatto che il “Gruppo Fides” ha stipulato un ampio numero di convenzioni con agenzie sociali e cooperative specializzate sul territorio della città di Genova. In questo modo viene facilitato il reinserimento sociale dell’autore di reato affetto da malattia mentale, riducendo la possibilità di episodi involutivi e verificando sul campo, con i datori di lavoro, i progressi raggiunti dagli ospiti della REMS di Prà6.

2.10. Lombardia: REMS di Castiglione delle Stiviere

Il Sistema Poli-modulare di Castiglione delle Stiviere6, in provincia di Mantova, è costituito da 8 REMS provvisorie: ha una capienza regolamentare di 160 persone e dispone di un reparto esclusivamente femminile (presente solo in poche altre REMS nel resto d’Italia). Le dimensioni di tale sistema, ben diverse rispetto a quelle dichiarate ammissibili nelle leggi n. 9 del 17 febbraio 2012 e n. 81 del 30 maggio 2014, sono dovute al procedimento di riconversione che ha visto l’OPG di Castiglione delle Stiviere diventare REMS provvisoria. Il Commissario Franco Corleone6, nella relazione sulle attività svolte dal 19 agosto 2016 al 19 febbraio 2017 per il superamento degli OPG, ha sottolineato la necessità di rispettare quanto previsto nel piano regionale della Lombardia, ovvero la presenza di due REMS da 20 posti a Limbiate (nell’ex-manicomio di Mombello) e 6 moduli da 20 posti a Castiglione delle Stiviere. Tutt’ora la struttura di Limbiate non è stata ancora apprestata e, al momento, i pazienti sono ospitati solo a Castiglione, che viene ad assumere le sembianze di un “mini-OPG”, secondo il commissario Corleone. Al momento della visita dell’Osservatorio StopOPG nazionale e lombardo, le 8 REMS mantovane ospitavano 160 persone (60 nel reparto maschile cosiddetto “Aquarius”, le altre suddivise negli altri vecchi reparti dell’ex-OPG). I singoli moduli spesso contengono pazienti che, secondo un modello simile a quello della gestione degli OPG in Germania, hanno una diagnosi di accettazione simile e che permette di personalizzare il trattamento secondo le esigenze delle singole patologie presentate. È importante ricordare che, per accordo interregionale, dei 160 pazienti ospitati alla REMS di Castiglione, fino a 4 posti sono riservati a utenti appartenenti alla Valle d’Aosta che è sprovvista di una propria struttura residenziale. Secondo il Presidente della Corte di Appello di Brescia, la struttura di Castiglione delle Stiviere, eccellenza non solo a livello nazionale, ha costituito – nell’immediatezza dell’entrata in vigore della Legge 81/2014 – la prima REMS sovraffollata d’Italia, con una presenza per lungo tempo di un numero di pazienti superiore alle 300 unità, circostanza verificatasi per ritardi nella realizzazione delle REMS di altre Regioni o per inesatte valutazioni del numero di posti tecnici necessari per il fabbisogno del territorio di riferimento. Tale sovraffollamento ha comportato enormi difficoltà di gestione della struttura e ha indotto la Direzione della struttura poli-modulare a disciplinare l’ingresso di pazienti, qualunque fosse la loro residenza, mediante l’istituzione di una lista d’attesa molto più lunga rispetto a quella delle REMS delle altre regioni. La situazione successiva al 2017 è migliorata, anche per il ricollocamento nelle regioni di appartenenza di numerosi pazienti, a seguito della creazione delle REMS nelle zone di competenza territoriale degli ospiti. Il rifiuto della contenzione è stato definito come uno dei capi saldi della riforma delle REMS e, seguendo le indicazioni del parere del Comitato Nazionale di Bioetica del 24 aprile 2015, tale pratica deve essere esclusa, sia intesa come contenzione fisica che come contenzione farmacologica. Nonostante ciò, Castiglione delle Stiviere – al momento – continua a utilizzare la contenzione fisica e meccanica nelle situazioni di difficile gestione e questo è dovuto anche al fatto che la struttura non presenta stanze di “de-escalation”, come in altre REMS più piccole, che possano facilitare una contenzione più leggera, di tipo ambientale e comportamentale.

2.11. Marche: REMS “Case Gemelle”
di Montegrimano Terme

La REMS marchigiana6 è stata aperta in data 25/06/2015 e ha una capienza di 15 posti letto, sebbene negli ultimi anni abbia ospitato spesso anche 5 ospiti oltre la capienza. Questo è un chiaro segno di sottostima della capienza della struttura per la Regione Marche che indica la necessità di predisporre nuovi posti letto grazie allo stanziamento di fondi a livello regionale. In questa REMS sono spesso stati ospitati pazienti fuori regione, possibile causa del sovraffollamento osservato che potrebbe andare scemando nei prossimi anni con l’inizio dell’attività delle strutture nelle regioni vicine. In questa struttura la contenzione non viene praticata. La REMS “Case Gemelle” di Montegrimano è totalmente gestita da un Ente privato accreditato (Gruppo “Athena”), per la mancanza di possibilità di aprire strutture pubbliche nei termini previsti dalla legge. La scelta di affidare la costruzione della struttura all’ente è stata dettata dalla lunga esperienza del “Gruppo Athena” nella cura e nel trattamento di soggetti con misure di sicurezza e con gravi patologie psichiatriche e comportamentali. Nella struttura organizzativa della REMS di Montegrimano Terme esiste un collegamento trasversale tra la direzione, i DSM, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la Magistratura e i Tribunali ordinari e la Casa Circondariale di Pesaro, che svolge periodica consulenza per la supervisione e l’aggiornamento dei fascicoli giudiziari. La gestione degli ospiti della REMS prevede una serie di fasi messe in pratica fin dall’accoglimento e che comprendono:

valutazione multiprofessionale in équipe (psichiatra, psicologo, educatore, infermiere) che dura 2-3 settimane e ha lo scopo di strutturare gli obiettivi per ogni singolo paziente nella compilazione del PTRI da condividere con i servizi di salute mentale territoriali;

trattamento dell’ospite, che comprende trattamento farmacologico di competenza psichiatrica, trattamento psicoterapico di competenza psicologica e trattamento educativo-riabilitativo fornito da educatori professionali e altri riabilitatori. Sono previste diverse attività educative interne, come attività fisiche, lavorative, teatro, disegno, grafologia e corsi di musica, in cui possono essere coinvolte anche figure professionali esterne.

Per la sicurezza e la vigilanza degli ospiti della REMS marchigiana è stato stipulato un accordo con la Prefettura, ASUR Marche e “Gruppo Athena”, che sancisce che la sicurezza perimetrale debba essere supportata dall’intervento delle Forze dell’Ordine, qualora ve ne fosse la necessità. La sicurezza interna è invece totalmente a carico del personale sanitario della REMS, che ha un duplice mandato di cura e custodia dei soggetti ospitati. È infatti richiesta una specifica formazione del personale, affidata a due psichiatri che hanno proposto un programma orientato anche alla gestione delle situazioni di aggressività, violenza e scompenso dei pazienti psichiatrici6.

2.12. Piemonte: REMS di Bra e San Maurizio Canavese

La REMS di Bra14 è parte di una struttura privata accreditata, la “Casa di Cura neuropsichiatrica San Michele”, dotata di 80 posti letto, di cui 20 accreditati per i detenuti, e situata in zona semicentrale a Bra, vicina alla sede della ASL. L’aspetto dall’esterno, diversamente da alcune altre strutture residenziali, non presenta i segni tipici della struttura custodiale, salvo una recinzione non troppo alta. L’accesso è però controllato da un vigilante, le porte verso l’esterno sono chiuse a chiave (o in apertura a codice e allarmate), la struttura è videosorvegliata e le finestre si aprono tutte a vasistas, ma non sono bloccate da fermi. All’interno colpisce la ristrettezza degli spazi a disposizione, pur decorosi, che viene lamentata esplicitamente da pazienti e operatori, mentre gli spazi esterni si limitano a un piccolo cortile, attrezzato con sedie, gazebo e tavolo da ping pong, in assenza di spazi verdi. I visitatori (compresi i familiari e gli amici dei pazienti) possono entrare, solo se autorizzati, in orari prestabiliti; devono lasciare gli oggetti e consegnare il documento d’identità personale. Possono introdurre oggetti (vestiti o alimenti), che vengono controllati dal personale e gli incontri avvengo in un’apposita sala all’ingresso della struttura oppure nella biblioteca. Il movimento da parte dei pazienti all’interno della REMS di Bra è parzialmente libero: possono accedere al piccolo cortile esterno attrezzato in orari prestabiliti o ad alcune zone “comuni” (biblioteca, palestra, sala riunioni, sale fumatori). Le camere da letto (doppie e con il bagno-doccia interno) sono sempre accessibili e restano aperte anche di notte e gli effetti personali restano in possesso dei pazienti (salvo quelli ritenuti “pericolosi”, come rasoi, bombolette, ecc). Sono chiuse a chiave sale medicinali, infermerie, lavanderia, cucina e magazzini. Va segnalato che la REMS di Bra è transitoria: l’apertura della struttura è stata realizzata in tempi rapidi (in quanto la regione Piemonte è stata commissariata per ottenere la chiusura degli OPG) e quindi gli ambienti sono decisamente troppo piccoli, certamente più decorosi e accoglienti dei vecchi OPG, ma del tutto sottodimensionati.

Il rapporto con i Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) di provenienza degli internati è riferito, in genere, come abbastanza buono e la dimissione dalla REMS di Bra avviene con PTRI e assegnazione ad altra struttura (rarissimamente in libertà): prevale l’invio presso strutture definite “terapeutico riabilitative ad alta intensità assistenziale”, destinate anche a pazienti psichiatrici autori di reato. Anche attraverso il lavoro del tavolo regionale del Piemonte, composto dai responsabili sanitari delle REMS e da un referente per ogni Azienda sanitaria della Regione, si stanno individuando una serie di comunità terapeutiche specializzate nell’accoglienza di pazienti psichiatrici autori di reato, verso le quali indirizzare i pazienti dimessi dalla REMS. Il personale della REMS di Bra è composto da 2 psichiatri, 11 infermieri professionali, 7 OSS, 2 psicologhe a tempo parziale (per un totale di 40 ore settimanali), 1 educatore professionale, 1 tecnico della riabilitazione psichiatrica, 1 assistente sociale fisso, 1 amministrativo e 1 coordinatore. Per quanto riguarda le attività riabilitative svolte all’esterno della REMS, l’uscita dalla REMS avviene solo per alcuni pazienti (alcuni a cadenza settimanale, altri quindicinale), pur se riferita come una priorità dei PTRI, e consiste in attività “lavorative” gestite dalla Caritas locale (orticoltura e maneggio), attività sportive (per es., calcetto) e partecipazioni a sagre/feste. Lo svolgimento delle attività esterne segnala un miglioramento del rapporto con la comunità locale ed è previsto per facilitare la reintegrazione sociale degli ospiti della REMS. Gli operatori della REMS di Bra hanno riferito che la contenzione fisica è stata praticata raramente, ma che esiste una “camera di sicurezza” chiamata “camera di crisi”, cioè uno spazio con un letto, un bagno e un’ampia sala priva di mobili e suppellettili, nella quale può venire chiuso un paziente con agitazione psicomotoria e aggressività eterodiretta14.

La REMS “Anton Martin” di San Maurizio Canavese15 è entrata in attività il 16 novembre 2016 ed è composta da un modulo di 20 posti letto per uomini e per donne, parte del grande “Presidio Ospedaliero Fatebenefratelli”, un complesso privato che opera in convenzione con il SSN. Il Presidio Ospedaliero è collocato all’interno del perimetro di quello che fu uno degli ospedali psichiatrici civili piemontesi e che cessò questa funzione alla fine degli anni ’90: oggi è articolato in diverse strutture (4 Unità Operative di Riabilitazione: Alzheimer, Neurologica, Fisica, Dipendenze e Alcol, 6 Ambulatori e 3 comunità protette). In quest’ambito, il direttore della REMS è anche responsabile di una comunità psichiatrica forense dedicata a pazienti provenienti dal carcere (o dalla stessa REMS) e dell’UO di Riabilitazione Alcol e Farmacodipendenze. La REMS “Anton Martin” è circondata da un muro di cinta con una recinzione alta 6 metri, dipinto con colori vivaci per renderne gradevole l’aspetto. La struttura, una palazzina con piano terra e primo piano, ha spazi esterni molto ampi (un grande giardino, l’orto, un campo) e diversi spazi comuni interni (sala riunioni, biblioteca, sale fumatori). L’accesso è controllato da un addetto alla sicurezza, le porte verso l’esterno sono chiuse a chiave (in apertura a codice, con badge, allarmate) e la struttura è videosorvegliata (salvo nelle camere dei pazienti, per mantenerne la privacy). I visitatori entrano solo se autorizzati, devono lasciare eventuali oggetti pericolosi e consegnare il documento d’identità personale, ma possono introdurre vestiti o alimenti, dopo controllo del personale.

Nella struttura è applicato il Regolamento Penitenziario: infatti la connotazione della struttura in termini custodiali è marcata, evidente, e rivendicata dalla direzione stessa, così come l’organizzazione fortemente normativa della vita interna. Illuminante, a questo proposito, è il foglio informativo consegnato ai pazienti al momento dell’ingresso, dotato di orari e regole imposti per la sveglia, il divieto di salire nelle camere dalle ore 8:30 alle ore 21 (salvo una parentesi dalle ore 13,30 alle ore 15,15), la distribuzione in orari prestabiliti di soldi e sigarette, le regole per i pasti, l’obbligo di consegna alla sera di apparecchi elettronici, la possibilità, concessa agli operatori, di sequestrare qualsiasi oggetto e la chiusura a chiave di alcuni spazi comuni (lavanderia, cucina e magazzini). Il movimento, da parte dei pazienti all’interno della REMS, è parzialmente libero; possono accedere in orari prestabiliti a un grande giardino esterno, che comprende una terrazza coperta, e ad alcune zone “comuni” (biblioteca, palestra, sala riunioni, sale fumatori). Le camere da letto, non accessibili di giorno, sono sia doppie che singole, tutte con il bagno interno, e restano aperte di notte. Gli effetti personali restano in possesso dei pazienti, salvo quelli ritenuti pericolosi e, nonostante gli ampi spazi a disposizione, si percepisce un clima interno di forte controllo. Gli operatori (in particolare il personale infermieristico) sono in costante contatto attraverso un sistema di ricetrasmittenti e auricolari ben visibili e la scelta della direzione di applicare il regolamento penitenziario fa sì che le regole della vita interna siano assai simili a quelle di un carcere. Il personale della REMS di San Maurizio Canavese è composto da 1 direttore, 2 specialisti psichiatri, 2 psicologi a tempo parziale, 13 infermieri, 8 OSS, 3 educatori professionali, 2 assistenti sociali, 1 coordinatore infermieristico, 7 operatori di vigilanza e 1 amministrativo. Per quanto riguarda le attività svolte dai pazienti, la REMS “Anton Martin” prevede sia attività interne (per es., lavoro di assemblaggio di gadget per hotel secondo il progetto “Lavoriamo insieme”) che all’esterno della struttura (per es., orticoltura nella comunità forense vicina). I permessi per uscire vengono concessi con facilità dalla Magistratura, secondo le attività presentate nel PTRI del singolo paziente. Anche questa struttura è dotata di una “stanza di crisi”, uno spazio con un letto e un bagno privo di mobili e suppellettili, nella quale viene chiuso a chiave il paziente (in caso di agitazione psicomotoria e pericolo di nocumento eterodiretto) e controllato con videocamera e finestra blindata15.

2.13. Puglia: REMS di Spinazzola e Carovigno

La REMS di Spinazzola16, aperta a novembre 2015, è ancora provvisoria ma dotata di 20 posti letto, con bacino d’utenza riferito all’ASL di Barletta-Andria-Trani: accoglie però pazienti di altre zone della regione Puglia. È inserita nel tessuto urbano di Spinazzola e fa parte di una struttura che ospita la sede del Distretto Sanitario e alcuni ambulatori (nella sede dell’ex-ospedale psichiatrico, ora riconvertito), in modo da favorire la reintegrazione sociale degli ospiti della REMS. Questa è collocata al primo piano, non ha sbarre alle porte e alle finestre e non presenta dall’esterno un aspetto custodiale, anche se l’alta recinzione esterna al giardino retrostante (imposta dalla Prefettura) e l’ingresso filtrato da due porte chiuse a chiave e sorvegliate da guardie giurate ne connotano la funzione detentiva. La REMS, dopo una iniziale ostilità da parte delle autorità locali (e degli abitanti più preoccupati), è stata accettata come realtà positiva, grazie a un paziente lavoro di relazioni da parte dei responsabili delle strutture e degli operatori. I visitatori (familiari, amici dei pazienti) entrano su richiesta dei pazienti, di solito con possibilità di effettuare incontri frequenti. La struttura è articolata su un piano, cui si aggiunge il giardino esterno: all’ingresso si trovano gli studi e i locali del personale e tecnici (lavanderia, cucinetta); gli spazi per i pazienti comprendono un’ampia sala corridoio con la TV e un calcetto, una sala mensa, le camere da letto da 2 e 3 letti (con mobilio non fissato a pavimento e pareti). I bagni sono privati e interni a ogni camera, ma le docce sono esterne e comuni. Il movimento all’interno della REMS da parte dei pazienti è relativamente libero: possono uscire nel giardino esterno, ma solo in orari prestabiliti, e muoversi negli spazi interni, tutti aperti, a eccezione di alcuni locali del personale. Le camere da letto restano sempre aperte e accessibili, anche se in alcune ore del giorno i pazienti sono scoraggiati dal personale a rimanere a letto, per dedicarsi ad attività (e rispettare i ritmi sonno-veglia). Le telecamere di sorveglianza sono poste anche all’interno delle camere (ma non nei bagni, per rispettare la privacy dei pazienti). I pasti vengono confezionati e conferiti da ditta esterna e il menu è unico per tutti, senza possibilità di scelta (salvo diete per particolari esigenze mediche).

Nella REMS di Spinazzola vige una versione “attenuata” del Regolamento Penitenziario, nel rispetto dell’Accordo in Conferenza Unificata 26.2.2015, che prevede esplicitamente una prospettiva ampliata nel godimento dei diritti nella REMS.

I rapporti con i CSM territoriali sono difficili al momento, per ritardi nell’elaborazione dei PTRI e nella presa in carico da parte dei CSM (a causa di carenze di organico di questi ultimi) e ciò comporta, a volte, il rischio di delegare impropriamente alla sola REMS la presa in carico del paziente. A Spinazzola è possibile eseguire TSO con ricovero degli ospiti in reparti ad hoc per detenuti all’interno dell’ospedale e con piantonamento della polizia penitenziaria. Nella struttura il personale è composto da 1 psichiatra responsabile (dipendente ASL), 3 medici a contratto libero professionale, 8 infermieri professionali (dipendenti ASL), 10 OSS, 2 terapisti della riabilitazione psichiatrica, 1 psicologa a tempo pieno, 2 amministrativi (dipendenti ASL) e 8 addetti alla portineria, ma non sono presenti assistenti sociali. All’interno della REMS di Spinazzola si svolgono attività riabilitative interne ed esterne, sia individuali sia di gruppo, riferite dal personale come “riabilitazione sociale” più che psichiatrica. I pazienti escono con operatori per acquisti in negozi, pratiche presso uffici, cura di giardini e orti sociali, attività fisica e cinema. È stato recentemente attivato un particolare progetto per collegare le persone ricoverate nella REMS alla comunità esterna, chiamato “Fermo posta: laboratorio di socializzazione epistolare” e che consiste nello scambio di lettere tra pazienti e persone che vivono nei dintorni. Un altro progetto ha riguardato la partecipazione a eventi di presentazione di libri, dove alcuni pazienti sono intervenuti nel corso del dibattito. L’uscita dei pazienti dalla REMS di Spinazzola è riferita come una priorità dei PTRI e, attualmente, coinvolge circa metà dei pazienti. All’interno della REMS sono inoltre attive associazioni di volontari e il sacerdote del paese celebra, in occasione delle festività, la messa in struttura, con partecipazione volontaria degli ospiti16.

Il modello di gestione della REMS di Carovigno6 è simile a quello della struttura di Spinazzola, nonostante questa appartenga a un privato convenzionato: la struttura è dotata di 18 posti letto, che sono stati occupati solo parzialmente negli anni di apertura della REMS. È importante segnalare però che questa seconda residenza pugliese è stata teatro di diverse controversie, a causa di problemi urbanistici legati anche alla non accettazione, da parte dell’amministrazione locale, della presenza della struttura sul proprio territorio. Al momento la struttura e il Comune di Carovigno si stanno adoperando per un programma di sensibilizzazione della popolazione nei confronti dei detenuti della REMS, in modo da facilitarne l’integrazione nella comunità, come è avvenuto efficacemente a Spinazzola.

2.14. Sardegna: REMS di Capoterra

La struttura è collocata in una RSA nel comune di Capoterra17, a circa 20 km da Cagliari, in un ambiente separato sia in riferimento allo spazio interno che a quello esterno. Il comune di Capoterra rientra nell’ambito territoriale della ASL 8 di Cagliari, nonostante la REMS afferisca alla ASL di Sanluri. Le ragioni della scelta della località e della struttura sono state motivate dal ritardo con il quale la Sardegna ha avviato il progetto della REMS e dalla difficoltà oggettiva di trovare un locale nel territorio della ASL di Sanluri. La dotazione di personale corrisponde ai parametri del decreto del Ministero della Salute dell’ottobre 2012 e nella struttura operano 1 medico psichiatra responsabile, 3 psichiatri a orario part-time del CSM di Sanluri, 1 psicologo, 11 infermieri, 6 OSS, 1 tecnico della riabilitazione psichiatrica, 1 assistente sociale a orario part-time e collaborante con il CSM di Sanluri e 1 figura amministrativa. La REMS dispone di un supervisore esterno della Comunità “Il Porto”, che incontra lo staff con cadenze periodiche. Fino a inizio 2016, in base agli accordi presi con la Prefettura, per ogni turno di lavoro erano presenti nella struttura 2 guardie giurate, non armate, ma a seguito di numerosi e ingravescenti problemi di violenza è stato deciso poi di aumentare il numero delle stesse a 4 nei turni diurni e 3 in quello notturno. È interessante sottolineare come, nella REMS di Capoterra, le stesse guardie giurate operino all’interno della REMS a contatto con gli internati, partecipando alle loro attività terapeutico-riabilitative. L’accesso alla REMS avviene direttamente dall’interno della RSA: da una prima porta blindata di metallo si accede a un ingresso dove è collocata una guardia giurata e da questo ambiente è possibile controllare il corridoio interno della REMS attraverso un vetro infrangibile e tutti gli ambienti interni ed esterni attraverso l’impianto di videosorveglianza (tranne che le stanze di degenza). Dall’ingresso si accede a un piccolo ufficio amministrativo e, attraverso una porta blindata, alla struttura vera e propria. La stessa ha la conformazione di un quadrato vuoto al centro per via della presenza di un pozzo luce con un piccolo spazio verde al piano sottostante, che, mediante una scala di accesso, viene utilizzato come orto per le attività riabilitative dei detenuti. Gli ambienti comuni sono costituiti da un soggiorno, il quale ha la duplice funzione di sala mensa e socialità e in cui settimanalmente avvengono le riunioni tra staff e internati, e da una stanza ricreativa dotata di attrezzature sportive. Le camere da letto, 2 singole e 7 doppie (per un totale di 16 posti letto), sono dotate di arredi sufficienti e gradevoli e di un bagno privato con box doccia. La struttura presenta spazio esterno recintato da una alta inferriata e separato dal giardino della RSA da uno spazio solo accessibile agli operatori.

In accordo con la Magistratura di sorveglianza, nella REMS di Capoterra non viene applicato il Regolamento Penitenziario, al fine di consentire una maggiore flessibilità dell’organizzazione: neppure in riferimento alle pratiche di immatricolazione cui provvede l’amministrativa della REMS che comunica, successivamente, i dati alla Casa Circondariale di Uta. Nonostante un rapporto definito buono con la Magistratura, viene evidenziata dagli operatori della REMS la non autorizzazione all’uscita degli internati in attività di riabilitazione all’esterno. Per affrontare questa e altre criticità organizzative è attivo in Regione Sardegna un tavolo di lavoro con la Magistratura.

Sono state evidenziate alcune difficoltà nel rapporto tra la REMS di Capoterra e i servizi di salute mentale, particolarmente in riferimento alla formulazione dei PTRI (Progetti Terapeutico-Riabilitativi Individuali). Come prassi operativa, al momento dell’ingresso di un internato, la struttura si occupa di inviare comunicazione al DSM di competenza territoriale, all’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna (UEPE) e alla Magistratura di sorveglianza, ma i servizi di salute mentale di riferimento a volte non formulano i PTRI. Una seconda questione riguarda l’ambito delle perizie psichiatriche fatte dagli operatori di psichiatria forense del DSM che sembrano coinvolgere poco i servizi territoriali e inviare eccessivamente gli autori di reato affetti da malattia mentale alle REMS, compresi anche alcuni casi di demenza giudicati socialmente pericolosi, ma difficilmente gestibili in questo contesto17.

2.15. Sicilia: REMS di Caltagirone e Naso

La Sicilia è la regione con il più alto numero di misure di sicurezza in attesa di essere eseguite e con un elevato numero di ospiti che sono stati inseriti nel tempo nelle REMS di altre regioni, a causa del sovraffollamento delle proprie strutture. Questo è anche dovuto al fatto che l’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto è stato operativo fino al 2017 con 13 pazienti sine titulo in attesa di trasferimento alle residenze siciliane o addirittura in strutture fuori regione. Al momento, le uniche due REMS presenti sul territorio siciliano, a Naso e Caltagirone, hanno già raggiunto la capienza massima dei loro 40 posti letto complessivi6. In attesa dell’apertura di un secondo modulo a Caltagirone per le donne (dato che al momento ospita solo detenuti uomini), si sta discutendo sulla possibilità di apertura di un’altra REMS a Caltanissetta: va posta comunque in evidenza la questione relativa al numero elevato di misure di sicurezza previste dai Magistrati siciliani che porta i soggetti a essere inviati anche a REMS fuori regione.

La REMS “San Pietro” di Caltagirone6 è stata attraversata da un processo evolutivo che ha visto crescere la gestione sanitaria dei pazienti internati presso la struttura, sviluppando un proprio modello operativo e organizzativo di tipo comunitario-terapeutico. Il modello di questa struttura tiene conto dei PTRI, con l’obiettivo di curare e sostenere gli ospiti, attraverso la promozione delle loro capacità e delle loro potenzialità, nell’ottica di una deistituzionalizzazione graduale, della responsabilizzazione della persona e di un suo reinserimento sociale. La struttura ha anche subito la spiacevole condizione di non accettazione da parte della popolazione di Caltagirone che, con posizione stigmatizzante, ha visto negativamente la REMS. Nonostante questa difficoltà, sono state organizzate dal personale della REMS numerose esperienze ed eventi che hanno visto coinvolte varie associazioni di volontariato del calatino le quali, regolarmente, vengono in visita presso la struttura per svolgere attività socio-ricreative. La comunità di Caltagirone ha anche condiviso con gli utenti, usciti per partecipare al rito dell’Apertura della Porta Santa in occasione del Giubileo, visite ai presepi calatini e cene presso ristoranti al centro della città. Inoltre, con la collaborazione delle suore del confinante “Istituto del Sorriso”, gli utenti della REMS siciliana sono divenuti parte attiva e fondamentale del gruppo canoro e musicale della parrocchia, fino a divenire parte attiva nelle celebrazioni eucaristiche. La REMS di Caltagirone ha realizzato una Carta dei Servizi ove sono esplicitate agli ospiti tutte le attività che si svolgono nella REMS e il regolamento della struttura. Tutto il personale segue corsi di formazione continua che si svolgono a cadenza bimensile nel Dipartimento di Salute Mentale. Gli addetti alla sorveglianza della REMS non sono armati, ma anche loro si attengono a procedure sanitarie volte a un processo di umanizzazione del paziente.

La REMS di Naso6 ha aperto i battenti il 01/04/2015 e ha una capienza massima di 20 posti letto, collocati in una struttura a unico piano, divisa in una zona notte (con camere singole, doppie e triple dotate di bagni privati e una infermeria) e una zona giorno, dove insistono gli ambulatori medici, i servizi sociali, l’ambulatorio di psicologia, palestre, direzione, ufficio di immatricolazione, cucina, sala da pranzo, sala di riabilitazione, sala fumatori e spazi comuni. Gli internati possono usufruire anche di un ampio spazio all’aperto di circa 2000 mq, situato al pian terreno dello stabile, per attività ludico-ricreative. Inoltre, sullo stesso piano sono collocati i laboratori per le attività manuali, ai quali gli utenti hanno libero accesso. La struttura è anche dotata di una camera di “de-escalation” per eseguire interventi basati sulla comunicazione verbale e non verbale che hanno l’obiettivo di diminuire l’intensità della tensione e dell’aggressività nelle relazioni interpersonali. L’équipe della REMS di Naso è formata da un dirigente sanitario di struttura, 2 dirigenti medici psichiatri, 1 dirigente psicologo, 1 assistente sociale, 5 terapisti della riabilitazione psichiatrica, 12 infermieri, 6 OSS specializzati e 6 OSS ausiliari. La struttura assicura la presenza costante dei medici, secondo apposite turnazioni, grazie anche al servizio della continuità assistenziale locale. L’offerta terapeutico-riabilitativa disponibile in struttura prevede attività clinica e di monitoraggio della compliance, supporto psicologico individuale e di gruppo, servizi sociali a raccordo con nuclei familiari e DSM di competenza territoriale, attività ludico-ricreative, attività riabilitative e rieducazionali attraverso laboratori specifici, attività culturali programmate e finalizzate e cineforum.

2.16. Toscana: REMS di Volterra

La REMS di Volterra18 è una struttura inserita nell’area dei principali servizi sanitari ospedalieri e territoriali della città, elemento positivo per assicurare l’inclusione degli utenti in un contesto non solo psichiatrico (o carcerario). Tuttavia, la recinzione esterna – e, soprattutto, la presenza all’interno di sbarre e di cancelli in ferro – assegnano alla struttura un aspetto decisamente custodiale che, inevitabilmente, influenza pesantemente la sua percezione come una struttura detentiva. Inoltre, l’ingresso è filtrato da addetti alla vigilanza, cui si deve consegnare un documento di identità, i quali videosorvegliano lo spazio perimetrale e interno. Come altrove, anche qui la connotazione della struttura in termini custodiali è frutto di una pressione esterna, dato che sono riferiti timori delle autorità e della stessa comunità nei confronti degli autori di reato ivi detenuti. Va considerato che altre città della Toscana, come risulta anche dalle cronache, hanno contrastato l’apertura della REMS nel loro territorio. I visitatori (familiari, amici dei pazienti) entrano solo se autorizzati e con specifiche frequenze stabilite dal personale; devono lasciare gli oggetti personali e sono controllati con metal detector. Possono introdurre oggetti (vestiti o alimenti), che vengono però controllati dal personale. Il movimento da parte dei pazienti all’interno della REMS è parzialmente libero: per esempio, possono accedere a un giardino esterno usando un videocitofono per farsi aprire il cancello, le camere da letto (in prevalenza doppie e con il bagno esterno alla camera) restano aperte anche di notte, gli effetti personali restano in loro possesso (salvo quelli ritenuti “pericolosi”: rasoi, bombolette, ecc.). I mobili non sono fissati, ma si possono spostare e sono chiuse a chiave le sale medicinali, le infermerie e i magazzini. Bisogna segnalare che la REMS di Volterra è al momento transitoria: l’apertura della struttura è stata realizzata in tempi rapidissimi (in quanto la Toscana è stata commissariata per ottenere la chiusura dell’OPG di Montelupo Fiorentino) e, quindi, gli ambienti sono stati solo parzialmente “rimodernati”, risultando così certamente più decorosi e accoglienti del vecchio OPG, ma ancora bisognosi di miglioramenti. La struttura è articolata su due piani: al piano terra vi è un modulo con 16 posti (di cui 2 per donne) e al 1° piano un modulo con 14 posti, per un totale di 30 posti, di cui 2 sono destinati ai pazienti provenienti dalla Regione Umbria (che ha un accordo interregionale per la loro detenzione). Entro 1 mese circa dall’ingresso (in linea con il termine ex norma di 45 giorni) per ogni paziente è presentato il Progetto Terapeutico Riabilitativo Individuale (PTRI), inizialmente a cura della REMS e poi condiviso con il DSM di competenza territoriale del paziente, soprattutto in vista delle dimissioni. Nella struttura lavorano 6 medici psichiatri (cui si aggiunge il Direttore del DSM, che è anche responsabile della REMS), 2 psicologi part-time, 1 coordinatore infermieristico, 1 coordinatore dei tecnici della riabilitazione e degli educatori professionali, 26 Infermieri, 12 fra terapisti della riabilitazione psichiatrica e educatori professionali, 16 OSS, 1 assistente sociale fisso e 1 amministrativo. Vanno aggiunti al conto professionisti anche gli addetti alla vigilanza e 2 medici di Medicina Generale, che collaborano con la REMS e si occupano a tempo parziale delle problematiche internistiche degli ospiti. Per quanto riguarda le attività cui sono sottoposti i pazienti, la loro uscita nella comunità è riferita come una priorità dei PTRI, tramite inserimenti socio-lavorativi, attività sportive (per es., nuoto nella piscina comunale, calcetto), corsi di teatro e di fotografia e onoterapia (pet therapy con gli asini). Lo svolgimento delle attività esterne permette all’ospite della REMS di costruire un rapporto con la comunità locale (associazioni, comune, spazi pubblici), facilitando il suo progressivo reinserimento sociale. I permessi per uscire vengono concessi dalla Magistratura di sorveglianza senza particolari difficoltà, in riferimento al PTRI e, quindi, sono validi per la durata del ricovero e con la frequenza indicata nel programma.

Anche nella REMS di Volterra è stato segnalato un buon rapporto con la Magistratura di sorveglianza e ciò aiuta a far emergere le esigenze di cura rispetto a quelle detentive. Più problematico è invece il rapporto con la Magistratura di cognizione per prevenire gli ingressi, disponendo misure non detentive grazie a PTRI ad hoc: ciò dipende anche dal rapporto tra Magistratura e DSM. Su questo aspetto va considerato come in Toscana non vi sia ancora, diversamente da altre regioni, un accordo tra i diversi enti implicati nel corretto funzionamento delle REMS (Regione/ASL/DSM e Magistratura)18.

2.17. Trentino Alto-Adige: REMS di Pergine Valsugana

La REMS di Pergine Valsugana19 è collocata al piano terra del Padiglione Perusini all’interno dell’ex-Ospedale Psichiatrico, situato in prossimità del centro della città, oggi sede del Polo della Riabilitazione che include, tra l’altro, il CSM, 2 Residenze Psichiatriche, la sede di Cittadinanza Attiva e quella del Distretto socio-sanitario. L’ingresso è accessibile attraverso due porte, di cui una blindata, e tutta la struttura è dotata di telecamere di sicurezza; il giardino esterno è perimetrato da una vetrata, che, sebbene funga da recinzione, consente perlomeno la vista della scuola e del parcheggio in entrambe le direzioni, riducendo l’impressione di istituto penitenziario presente in altre residenze italiane. La vigilanza esterna è gestita da un accordo con i Carabinieri, mentre le guardie giurate (una per ogni turno) – che forniscono servizio attraverso una cooperativa – lavorano all’interno in collaborazione con il personale della REMS con cui hanno condiviso il percorso di formazione. L’accesso al giardino è libero per gli ospiti e le stanze, doppie e triple, sono tutte aperte, di modo che gli internati transitino liberamente in tutti i locali della struttura, fatta eccezione per la cucina, per la stanza adibita a palestra, la sala musica e la sala computer (chiuse a chiave, ma a cui possono accedere accompagnati un operatore). I pasti vengono comunque forniti dalla mensa ospedaliera, intorno alle 12 e alle 18:30, come per tutti gli altri degenti ospedalieri. Non ci sono grate alle finestre verso l’esterno della struttura, che possono anche essere aperte, e gli arredi sono modesti, anche se vi è un soggiorno, contiguo alla veranda. In questa struttura non si ricorre alla contenzione meccanica e non è stato mai effettuato un TSO, al momento. Il personale della REMS di Pergine Valsugana è formato da 1 coordinatore terapista della riabilitazione psichiatrica, 6 infermieri, 2 terapisti della riabilitazione psichiatrica, 1 psichiatra proveniente dalla UO di Psichiatria della struttura e che ruota a seconda dei turni. L’assistenza medica è disponibile per 5 ore alla settimana, quella psicologica per 20 ore alla settimana, mentre la presenza di un’assistente sociale all’interno della REMS viene programmata solo in caso di necessità. All’interno della struttura, vengono svolte diverse attività espressive, lettura dei giornali, pet therapy (con cani di proprietà della ASL), musicoterapia, attività fisica, uso della rete Web (in presenza degli operatori) e un’attività di orticoltura assieme a una cooperativa. Per circa la metà dei pazienti, è prevista un’uscita settimanale per la frequentazione dei rispettivi CSM, ma non sono ancora stati attivati rapporti di collaborazione con associazioni e cooperative del territorio.

Vengono riferiti in generale buoni rapporti con i DSM di competenza territoriale, anche se in taluni casi si rende necessaria, da parte della REMS, una continua sollecitazione per la definizione di progetti terapeutici individualizzati che prevedano la dimissione dalla REMS19.

2.18. Veneto: REMS di Nogara

La REMS di Nogara20 non è una struttura a sé stante, ma è collocata all’interno della sede del Distretto Sanitario (l’ex-Ospedale Psichiatrico) che include poliambulatori, un centro diurno, una comunità terapeutica-residenziale protetta e il Centro di Salute Mentale (CSM), con un SPDC a porte chiuse. Questo è certamente un fatto positivo perché la struttura è molto frequentata da cittadini e utenti e fa parte delle strutture socio-sanitarie specializzate in psichiatria, permettendo una gestione integrata di questi pazienti dalla fase di acuzie a quella di riabilitazione e reintegrazione nella comunità. La REMS è completamente ristrutturata, le camere sono singole o doppie, ampie e accoglienti, come per la sala mensa e per gli spazi per lo svolgimento delle attività. Tuttavia, la struttura appare caratterizzata da tratti custodialistici: sbarre ad alcune finestre al piano terra, bussola d’entrata con doppie porte chiuse a chiave, mobili fissati ai pavimenti, finestre che non possono essere aperte al secondo piano. La videosorveglianza è attiva anche all’interno delle camere (non nei bagni), con monitor nella stanza del personale e non in quella dei vigilantes. Anche il giardino esterno, dotato di attrezzature sportive, è purtroppo delimitato da un’alta recinzione di 3 metri e per accedervi gli ospiti devono chiedere il permesso ogni volta ed essere accompagnati da un operatore. La REMS, nel progetto definitivo, sarà costituita da due moduli da 20 posti letto ciascuno (rispettivamente una sezione di reparto e una sezione con mini-appartamenti), per un totale di 40 posti letto: in futuro si spera di ristrutturarne una parte adiacente per le attività ricreativo-riabilitative. La vigilanza interna è svolta da una ditta privata e, solo raramente, vengono fatte intervenire le Forze dell’Ordine per casi turbolenti. L’attività della REMS di Nogara è stata avviata a febbraio 2016 e ha accolto, nel periodo di avviamento, detenuti dall’OPG di Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere, mentre attualmente tutti gli arrivi interessano malati psichiatrici veneti prima in libertà. In questa struttura è stato segnalato un alto numero di soggetti con misura di sicurezza provvisoria (disposta dalla Magistratura di cognizione) e questo potrebbe essere indicatore di uso inappropriato della REMS da parte della Magistratura rispetto a quanto stabilito dalla Legge 81/2014.

Per quanto riguarda il rapporto con i Servizi di salute mentale, i PTRI vengono presentati in collaborazione tra DSM di competenza territoriale e REMS e sempre nel rispetto del tempo massimo di 45 giorni dall’ingresso. A seguito di una convenzione regionale e all’adozione della scheda SMOP, il Ministero della Salute può verificare direttamente la raccolta dei dati essenziali (anagrafici, ingressi, uscite e progetti individualizzati, compresi i PTRI obbligatori finalizzati alle dimissioni) attuati dalla REMS di Nogara. Nella zona di competenza territoriale della REMS è attiva da tempo la “Casa Don Girelli”, a Ronco all’Adige, che rappresenta una struttura intermedia riabilitativa di alta specializzazione in grado di accogliere fino a un massimo di 18 ospiti provenienti da ospedali psichiatrici giudiziari, in regime di “licenza esperimento” o “libertà vigilata”. La presenza di questo servizio permette di alleggerire il carico di ospiti nella REMS di Nogara, evitandone il sovraffollamento, mediante una collaborazione con il privato convenzionato. Nella REMS lavorano 6 psichiatri (compreso il responsabile), 3 psicologi, 2 assistenti sociali, 2 educatori specializzati, 41 tra infermieri e OSS e 1 coordinatore amministrativo. I medici sono dipendenti AUSL assunti per concorso, mentre tutti gli altri sono dipendenti di una cooperativa convenzionata con appalto, il cui bando viene rinnovato con diversa cadenza: per questo motivo, sono sorte diverse preoccupazioni per il rischio di continuo cambiamento degli operatori in servizio. La REMS di Nogara è fornita di un programma-calendario settimanale delle attività, svolte sia all’interno della struttura (anche con ingressi di operatori e volontari) che all’esterno, cui si associano alcuni progetti per attività sociali in collaborazione con cooperative esterne (formazione lavoro, attività fisica, corso di cucina e pet therapy, simposio di poesia e attività teatrali). I permessi per uscire vengono concessi agli ospiti, dopo segnalazione alla Magistratura, in riferimento al PTRI e, quindi, sono validi per l’intera durata e con le frequenze indicate nel PTRI.

La REMS di Nogara collabora strettamente con il DSM di Legnago, che è anche punto di riferimento per i ricoveri in caso di acuzie, che non vengono trattati all’interno della residenza: in questo caso, i giudici dispongono il piantonamento in SPDC con la polizia penitenziaria. Ai familiari è garantito un accesso abbastanza flessibile che dipende dalla gravità clinica del soggetto e dalla sua pericolosità sociale, potendo variare da 2 volte alla settimana a 1 volta al mese. I familiari vengono comunque coinvolti nella definizione del progetto individuale: è stato attivato un gruppo di sostegno a loro rivolto, che si riunisce una volta al mese e lavora sulle dinamiche relazionali. Anche le associazioni possono, previa richiesta, visitare la REMS di Nogara e sono spesso organizzati incontri con diversi enti e gruppi del territorio, compreso il Comune di Nogara e la Chiesa locale con i quali, nel tempo, si è consolidata una collaborazione significativa volta anche a sensibilizzare la popolazione sul considerare la REMS, per quanto possibile, come parte della comunità20.

3. Definizione delle priorità organizzative
dei Servizi Psichiatrici

In quella che viene definita la “riformata stagione delle REMS”, a 5 anni dall’iniziale gestione di queste strutture, sono emerse diverse difficoltà e, quindi, si delineano anche alcune priorità organizzative che riguardano i Servizi psichiatrici regionali e territoriali. Esse comprendono:

A organizzazione aziendale dedicata alle REMS e ai pazienti sottoposti a misure di sicurezza, mediante la costituzione di Unità di Psichiatria Forense per ogni ASL e luoghi dedicati ad accogliere le persone con misure di sicurezza;

B formazione del personale all’interno delle REMS, sia di quello sanitario che di quello detentivo, mediante percorsi formativi condivisi;

C necessità di protocolli operativi inter-istituzionali, che possono prevedere:

a possibili contributi dei DSM alla fase di cognizione del procedimento penale nella scelta del percorso più idoneo per i singoli soggetti, che verrebbe poi a concretizzarsi nella stesura di un migliore PTRI;

b modalità di interlocuzioni ufficiali tra il consulente tecnico di ufficio (CTU) e i sanitari del DSM;

D istituzione di un tavolo tecnico per le REMS a livello regionale;

E strutturazione di prassi condivise per la formulazione di PDTA.

3.1. Organizzazione aziendale dedicata a pazienti
con misure di sicurezza

Uno degli elementi più significativi del passaggio dal vecchio modello degli OPG alla riformata stagione delle REMS è il taglio drastico di posti letto disponibili (662 attuali contro i 1200-1300 medi degli OPG). Questo è avvenuto senza dubbio per salvaguardare il principio della misura di sicurezza detentiva intesa come extrema ratio sancito dalla Legge 81/2014. Com’era facilmente prevedibile, il differenziale recettivo creatosi tra il precedente sistema e l’attuale ha presto creato uno squilibrio tra il numero di ordinanze da parte dei Tribunali per soggetti destinati alla misura di sicurezza detentiva e l’offerta di posti letto in REMS, con la creazione di importanti liste di attesa per questi istituti21.

Non potendo aumentare il numero dei posti letto nelle REMS, per evitare anche di incappare nel problema degli “ergastoli bianchi” tipico dell’era degli OPG, il fenomeno pone alcuni stringenti quesiti critici: dove sono questi soggetti? Come viene garantita loro la cura? Come è tutelato il loro diritto alla salute? È ipotizzabile che la loro attuale condizione residenziale possa recare danno a sé e agli altri?

Questa impasse presuppone, innanzitutto, la necessità di implementare e ottimizzare le risorse, i percorsi di cura e l’organizzazione aziendale della psichiatria forense, in modo da creare un network di servizi sanitari e giuridici che operi efficacemente nel rispetto dei diritti di cura e personali degli autori di reato affetti da malattia mentale. Questa evoluzione sarebbe possibile mediante 2 strategie organizzative:

I. Creazione di Unità Funzionali di Psichiatria Forense (UFPF) all’interno delle ASL, che permettano una stretta collaborazione tra gli organi sanitari e quelli giuridici (Procura, Tribunale), che possa avvenire sin dall’inizio delle indagini fino alla sentenza e all’esecuzione delle misure di sicurezza. In questo modo possono venire effettuate le scelte più corrette per la salute dei pazienti, ma anche per una migliore tutela della collettività21,22. Un precursore esemplare sono le unità funzionali di psichiatria forense già avviate in Liguria (per esempio, a Savona). Queste strutture sono composte da medici psichiatri che hanno competenze aggiuntive in materia giuridica-penale, i quali lavorano a stretto contatto con i periti nominati dai Magistrati e con i Magistrati stessi per individuare i percorsi migliori, come detto, di cura e di prevenzione23. Secondo quanto ipotizzato in Regione Liguria22, la funzione di supporto delle UFPF comporterebbe la collaborazione con l’Autorità Giudiziaria, con specifico riferimento a:

a Supporto ai servizi psichiatrici territoriali competenti nella definizione e presentazione di PTRI alternativi alle misure cautelari o alle misure di sicurezza detentiva al Magistrato, o alla direzione dell’Istituto penitenziario nel caso di detenuti;

b Supporto ai Servizi psichiatrici competenti per la tutela della salute mentale negli Istituti penitenziari (DGR 364/2012);

c Collegamento alla rete regionale di supporto alla REMS, attraverso diverse fasi:

i Interazione in fase di valutazione dell’autore di reato al momento del primo contatto con l’Autorità Giudiziaria, nel caso in cui si prospetti l’ingresso in REMS;

ii Valutazione in fase di percorso di trattamento per eventuali aggiustamenti al Piano di Trattamento Individuale (PTI) o Piano Terapeutico-Riabilitativo Personalizzato (PTRP), in collaborazione con l’UFPF e i responsabili del caso in ambito territoriale;

iii Valutazione nel caso in cui si passi da una fase di trattamento ad alta intensità a una a più bassa intensità o a un trattamento ambulatoriale territoriale, in collaborazione con l’UFPF e i responsabili del caso in ambito territoriale;

iv Valutazione congiunta (UPFP, Direzione REMS, responsabili in ambito territoriale) nel caso in cui la Magistratura di Sorveglianza richieda un parere sulla persistenza o meno della pericolosità sociale e/o della misura di sicurezza per i pazienti presenti in REMS). Nell’ambito delle attività dell’UFPF si prevedono prestazioni di tipo consulenziale nei confronti della Magistratura. Tale attività rientra nella ratio complessiva dell’accordo di collaborazione che consiste nel favorire percorsi virtuosi nell’ambito del servizio pubblico e consente un’interlocuzione con la Magistratura nella fase di avvio dei percorsi penali di persone con problemi psichiatrici che già sono conosciute o che potranno in seguito essere in carico al DSMD22;

II. Creazione di strutture intermedie riabilitative ad alta specializzazione per pazienti psichiatrici21, internati dal Tribunale per “aver commesso reati in riscontrata situazione di non sapere né intendere né volere o con tare psichiche”. Come precedentemente riportato nella descrizione organizzativa della REMS di Nogara, tale servizio è stato già attivato, fin dal luglio 2011, nella Regione Veneto presso la Residenza “Don Giuseppe Girelli” di Ronco all’Adige (VR) dove sono stati avviati interventi di riabilitazione e di reinserimento sociale delle persone precedentemente internate presso l’OPG di Reggio Emilia e che oggi funge da struttura ausiliaria per gli ospiti della REMS di Nogara. Tale struttura si qualifica come residenzialità intermedia riabilitativa di alta specializzazione, in grado di accogliere fino a un massimo di 18 ospiti a pericolosità sociale attenuata, di norma in regime di “Licenza di esperimento” o “Libertà vigilata”. Casa Don Girelli nasce da un’idea concretizzata in una partnership tra il Dipartimento di Salute Mentale dell’ex-AUss 21 veneta, corrispondente al territorio della Bassa veronese, e l’“Associazione Don Giuseppe Girelli, Casa San Giuseppe - Sesta Opera”, finalizzata all’elaborazione di un progetto per l’accoglimento residenziale di pazienti in dimissione da OPG, così come richiesto nella DGR della Regione Veneto del 2010 (21). Queste strutture intermedie potrebbero fungere da istituti atti ad accogliere una larga fetta degli utenti in lista di attesa per le REMS e, grazie anche al contributo di soggetti privati convenzionati, ridurrebbero i costi di gestione diretta da parte del SSN.

3.2. Formazione del personale impiegato all’interno delle REMS

Per quanto riguarda la formazione degli operatori delle REMS, la Legge 81/2014, all’art. 4, prevede che le Regioni, anche attraverso il supporto del DAP, organizzino iniziative di approfondimento e di addestramento del personale delle REMS per la gestione giuridico-amministrativa degli internati2. Si presuppone, quindi, che il personale sanitario – per garantire una corretta gestione degli internati – debba possedere competenze in ambiti che, caratteristicamente, non gli appartengono. Secondo alcune opinioni, la confusione tra competenze sanitarie e quelle di ambito giudiziario, tra cura e custodia in un contesto completamente nuovo come quello rappresentato dalle REMS, rischia di “alterare l’identità” dei professionisti sanitari24. D’altra parte, le competenze giuridiche sono fondamentali per permettere a ciascuno dei membri del team multidisciplinare che lavora nella REMS (medici, psichiatri e non; psicologi; infermieri e operatori socio-sanitari (OSS); educatori professionali, tecnici della riabilitazione, ecc.) di poter prendere parte attiva nella realizzazione del progetto terapeutico-riabilitativo dell’utente.

A questo proposito, appare indispensabile che le singole Regioni organizzino percorsi di formazione multi-professionali e multi-tematici, tenuti possibilmente da docenti di diversa estrazione sanitaria e giuridica e non solo da psichiatri e criminologi, come è avvenuto in questi anni: ciò al fine di ricevere, per ciascun membro del team multidisciplinare, i maggiori benefici informativi e di comprendere anche le mansioni degli altri operatori.

Un maggior bagaglio di conoscenze e una maggior expertise delle singole figure professionali impiegate nella REMS permetterebbe, senza dubbio, di poter includere tutte le categorie di operatori sanitari impiegati nella elaborazione dei PTRI. Inoltre, le iniziative formative avviate dalle Regioni appaiono estremamente eterogenee, soprattutto per quanto riguarda i contenuti dei programmi, determinando un quadro formativo fortemente frammentato e diversificato sul territorio nazionale. In questo panorama eterogeneo sarebbe fondamentale, invece un indirizzo comune tra le diverse Regioni, per permettere al personale di ciascuna delle 30 REMS attualmente attive in Italia di operare secondo principi, conoscenze e protocolli comuni e condivisi, volti alla tutela dei diritti degli ospiti di queste strutture24. Infine, come già avvenuto in alcune REMS, è importante che ai corsi di formazione partecipi pure il personale adibito alla sicurezza e alla vigilanza perimetrale delle strutture, in modo da trovare – anche in questo caso – strategie condivise nella gestione custodiale degli ospiti, non solo all’esterno della REMS in cui la vigilanza è demandata, secondo la Legge 81/2014, alla Prefettura2, ma anche all’interno, dove rientra appunto tra le competenze degli operatori sanitari24.

3.3. Necessità di protocolli operativi inter-istituzionali tra DSM e Magistratura

Con la Legge 81/20142 – che ha sancito i principi della priorità delle necessità di cura, della territorialità delle stesse, della centralità del PTRI e, infine, quello più significativo della residualità e transitorietà della misura di sicurezza detentiva (dovendosi ritenere il ricovero in REMS uno strumento di extrema ratio) – ne è derivato un maggiore e più incisivo ruolo dei DSM nella gestione degli autori di reato con disturbi mentali, privilegiando l’inclusione sociale e la scelta di misure non detentive. Infatti, i DSM sono divenuti – a pieno titolo – titolari dei programmi terapeutico-riabilitativi allo scopo di attuare, di norma, i trattamenti in contesti territoriali e residenziali25.

In quest’ottica, le strutture territoriali di salute mentale si trovano nella necessità di interfacciarsi con gli organi della Magistratura, costantemente e possibilmente, attraverso pratiche standardizzate che agevolino gli scambi in maniera proficua e funzionale.

Preso atto delle criticità e dei problemi applicativi e organizzativi propri della riforma del sistema REMS, il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) ha ritenuto di «delineare un quadro di buone pratiche e di schemi procedimentali volti a valorizzare le acquisizioni scientifiche e dottrinali emerse nell’ultimo decennio, nonché a garantire un effettivo sviluppo dei principi» insiti nell’area legislativa in oggetto adottando, con Delibera consiliare del 19 aprile 2017, le “Direttive interpretative e applicative in materia di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) di cui alla Legge n. 81 del 2014”25,26.

Tra le indicazioni di maggior rilievo sul piano organizzativo, questa delibera pone l’accento sulla necessità di “una costante integrazione funzionale” tra gli Uffici di Sorveglianza (quali organi giudiziari preposti alla vigilanza sulla esecuzione delle misure di sicurezza), i DSM e le loro Unità operative complesse (se possibile con l’istituzione delle suddette UFPF), nonché le Direzioni delle REMS (quali organi deputati alla diagnosi e cura delle malattie psichiche degli autori di reato) e gli UEPE, aventi una funzione di controllo e supporto sociale alle persone affette da malattia psichica collocate sul territorio25.

D’altronde, la necessità che – al fine di una piena realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla riforma e dei principi delineati – tutti i soggetti istituzionali coinvolti collaborassero e dialogassero tra loro, era già stata recepita dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni del 26 febbraio 2015 che sanciva come «alla data di chiusura degli OPG, le Regioni e le Province Autonome, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la Magistratura […] definissero, mediante specifici accordi, le modalità di collaborazione»27. Questi accordi prevedono:

modalità operative e protocolli che assicurino il costante coinvolgimento degli UEPE territorialmente competenti;

la definizione di modalità e procedure di collaborazione interistituzionale per la contemporanea gestione sia del percorso terapeutico-riabilitativo individuale interno alla struttura, che di quello di reinserimento esterno;

la predisposizione e invio all’Autorità competente – nonché nel rispetto del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, anche al Ministero della Salute – dei progetti terapeutico-riabilitativi individuali (PTRI) finalizzati all’adozione di soluzioni diverse dalla REMS (per tutte le persone entro 45 giorni dal loro ingresso) da parte del Servizio delle già menzionate strutture, con il concorso dell’Azienda Sanitaria competente per la presa in carico territoriale esterna e dell’UEPE27.

L’Autorità Giudiziaria deve quindi collaborare, fin dalle prime fasi di valutazione dell’autore di reato affetto da malattia mentale, con i DSM e gli altri enti coinvolti. Infatti, già nella fase delle indagini è necessario, ove sia ipotizzabile una prognosi di non imputabilità o imputabilità ridotta per il soggetto, non solo acquisire tutta la documentazione clinica rilevante, ma anche affidare a un consulente l’incarico di eseguire un accertamento sulle condizioni di salute mentale dell’indagato e sulla sua eventuale pericolosità secondo i criteri indicati dalla normativa vigente. È dunque indispensabile chiedere al consulente di coordinarsi con i servizi territoriali che hanno già (o che dovranno avere) in cura il soggetto e di individuare – collaborando con i Servizi – le soluzioni di cura praticabili sul territorio o con inserimento comunitario, con onere specifico – nel caso di indicazione di REMS – di specificare gli elementi in base ai quali ogni alternativa risulti non praticabile25.

Il CSM, già nel 2017, indicava infatti come necessario che “gli uffici giudicanti mantengano un rapporto di costante collaborazione, scambio di informazioni e conoscenza capillare della rete dei servizi di salute mentale che fanno capo al DSM cui la Legge n. 833 del 1978 assegna la responsabilità di prevenzione, cura e riabilitazione dei problemi di salute psichica”. Ed è questo che può consentire all’autorità giudiziaria di «indirizzare il non imputabile a un programma terapeutico adeguato al caso singolo, di plasmare le misure di sicurezza sin dal momento della pronuncia nel processo penale, di rispettare il fondamentale collegamento tra il tessuto territoriale di provenienza e l’esecuzione della misura». Si deve pertanto costruire un gruppo di lavoro volto a elaborare un progetto terapeutico, immaginando percorsi di cura effettivamente praticabili e non luoghi dove alloggiare le persone25.

Con la recente risoluzione del 24/09/201828, il Consiglio Superiore della Magistratura è di nuovo intervenuto, con l’obiettivo di approfondire l’aspetto relativo alla formalizzazione di intese mediante la sottoscrizione di protocolli tra i soggetti istituzionali coinvolti nella gestione delle misure di sicurezza per il non imputabile, “al fine di conferire alla già auspicata collaborazione tra gli organismi pubblici e privati coinvolti carattere stabile e forma strutturata”. È infatti fondamentale una piena integrazione tra i Servizi di salute mentale sul territorio e l’ordine giudiziario e, in particolare, la conoscibilità – da parte degli organi giudiziari – dell’offerta terapeutica e riabilitativa sul territorio: ciò al fine di consentire all’organo giudiziario, sin dal primo momento di contatto con il malato psichico autore di reato, una scelta utile e consapevole delle misure adottabili in concreto per far fronte alla pericolosità sociale dando prioritaria rilevanza alle esigenze di cura e di inclusione sociale dello stesso, visti gli effetti indesiderati per la tenuta del sistema propri della mera custodia.

In quest’ottica, i Protocolli Operativi costituiscono un prezioso strumento di lavoro in grado di favorire l’integrazione del procedimento giudiziario in ciascuna delle sue fasi, anche quelle connotate da maggiore criticità (dalla scelta della misura in concreto applicabile alla gestione delle acuzie dell’autore di reato e alla esecuzione della misura in corso), contribuendo a evitare accesso massivo e indiscriminato alle REMS per via dell’assenza di alternative concrete25.

Un precursore virtuoso di questi documenti sono, senza dubbio, i due Protocolli realizzati in Regione Lombardia: al primo di questi – “Protocollo di Brescia”29, hanno preso parte e contribuito rappresentanti della Magistratura di Sorveglianza, della Procura della Repubblica, degli Uffici Giudiziari, della Regione Lombardia, dell’UEPE e delle strutture sanitarie del territorio interessato (ASST Valcamonica, Papa Giovanni XIII, Bergamo Ovest e Est, Spedali Civili di Brescia, Franciacorta, Garda, Cremona, Mantova, Crema) e della REMS di Castiglione delle Stiviere. Questo documento, sulla scorta di esperienze già maturate in realtà virtuose, ha elaborato un contenuto “minimo operativo” riguardante i soggetti coinvolti, il tipo di soluzioni, l’efficacia tempestiva e le fasi dei procedimenti cui riferirsi, i principi residuali, cui i protocolli devono ispirarsi e l’aspetto della formazione congiunta e del monitoraggio della fase esecutiva25,29. Nel Protocollo di Brescia viene valorizzato anche il ruolo dell’Avvocatura che deve fungere da collante sul piano procedurale e da soggetto attivo nella ricerca di soluzioni eque per le esigenze di cura degli autori di reato con disturbo mentale. Spesso, infatti, il difensore può svolgere un’attività decisiva a favore delle istanze di cura del proprio assistito, sia al momento della scelta della misura da applicare e del collocamento effettivo del paziente (dialogando, a tal fine, con i servizi territoriali e individuando le strutture disponibili all’accoglienza), sia al momento dell’esecuzione della misura: in questo caso, rapportandosi e sollecitando i Servizi di salute mentale territoriali e l’UEPE al fine di un reinserimento graduato ma effettivo del paziente sul territorio.

Il Protocollo di Brescia – e l’analogo di Milano, licenziato in successione – possono costituire, quindi, un ottimo esempio su cui le diverse Regioni e le Autorità Giudiziarie potranno prendere spunto per la stesura di analoghi protocolli con standard procedurali simili. È evidente che nel variegato contesto nazionale, connotato da molteplici realtà assistenziali in tema di cure psichiatriche, i protocolli operativi devono comunque essere volti al principio di differenziazione, di modo che essi possano adattarsi alle diverse realtà territoriali, anche tenendo conto della disponibilità di posti letto nelle diverse REMS25.

3.4. Istituzione di un tavolo tecnico delle REMS
a livello regionale

Lo scopo di un tavolo tecnico a livello regionale è quello di facilitare l’interazione continua e costante tra le diverse istituzioni implicate in una determinata tematica e, nel caso specifico delle REMS, permette l’individuazione precoce delle problematiche reali e degli eventuali suggerimenti per il ripristino di un buon funzionamento delle strutture, tale da garantire dignità professionale agli operatori e garanzia del diritto di cura degli internati. La costituzione di un tavolo tecnico regionale delle REMS come parte integrante delle priorità organizzative dei servizi psichiatrici e sanitari rappresenta senza dubbio un passo avanti rispetto all’epoca degli OPG, dato che la tutela dei diritti degli internati è diventata centrale nell’attuale Sanità Penitenziaria, come peraltro in ogni ambito della medicina. La composizione del tavolo tecnico dovrebbe prevedere non solo i rappresentanti del DSM e gli operatori della REMS, ma anche i referenti della Procura della Repubblica e del Tribunale di Sorveglianza, del Tribunale dei diritti del Malato e, possibilmente, delle istituzioni che in questi anni e a più diverso livello si sono occupate del superamento degli OPG (per es., l’Osservatorio sul superamento degli OPG e sulle REMS - StopOPG), in modo da costituire un gruppo di lavoro eterogeneo in grado di far fronte a tutti i tipi di problematiche sanitarie e giuridiche presenti nelle residenze.

Già a marzo 2018, su sollecitazione del Garante regionale delle persone private della libertà della Regione Lazio, il Commissario della ASL Rm-5b ha istituito il primo tavolo tecnico di monitoraggio e coordinamento degli interventi socio-sanitari nelle REMS di Palombara Sabina e di Subiaco. Tra i componenti di questo primo tavolo tecnico figurano il Direttore del DSM della ASL, gli psichiatri responsabili delle strutture, un assistente sociale della REMS, il presidente della Consulta della salute mentale territoriale, rappresentanti dei Garanti regionale e nazionale delle persone private della libertà, della Procura della Repubblica e del Tribunale di sorveglianza. Partecipano attivamente anche due ospiti delle REMS, eletti in rappresentanza di tutti gli altri, segno ulteriore della volontà di includere e ascoltare gli stessi utenti delle residenze rispetto alle problematiche in essere di queste strutture e di cooptarli nella ricerca di soluzioni gestionali comuni30.

3.5. Formulazione dei PDTA per le REMS

I PDTA rappresentano uno strumento, utilizzato ovunque, con lo scopo di uniformare l’approccio clinico a determinate categorie di pazienti (da cui il termine anglosassone coniato dalla National Library of Medicine “clinical pathway” o “integrated care pathway”). In realtà la definizione completa di PDTA – fornita durante la Consensus Meeting del 2005 in Slovenia – li descrive come una metodologia mirata alla condivisione dei processi decisionali e dell’organizzazione dell’assistenza per un gruppo specifico di pazienti durante un periodo di tempo ben definito. Secondo l’European Pathway Association (EPA) i PDTA:

devono includere una chiara esplicitazione degli obiettivi e degli elementi chiave dell’assistenza basata sulle evidenze scientifiche;

devono facilitare le comunicazioni tra i membri del team, i caregiver e i pazienti;

devono coordinare il processo di assistenza tramite il coordinamento dei ruoli e l’attuazione delle attività dei team multidisciplinari d’assistenza;

devono includere la documentazione, il monitoraggio e la valutazione degli outcomes;

devono, infine, identificare le risorse necessarie all’attuazione del percorso.

Lo scopo dei PDTA è dunque quello di fissare gli standard assistenziali e di favorire la qualità e l’appropriatezza dell’assistenza percepita ed effettivamente erogata, migliorando gli outcome e promuovendo la sicurezza del paziente attraverso l’utilizzo delle giuste risorse necessarie31.

Per quanto riguarda, in maniera specifica, la stesura di un PDTA per i pazienti autori di reato con disturbo mentale, esso dovrebbe basarsi principalmente sulla tipologia della misura di sicurezza stabilita dalla Magistratura (REMS, Libertà Vigilata). Pertanto, un PDTA destinato a costoro dovrebbe focalizzarsi su:

I luoghi di cura in cui ospitare gli autori di reato affetti da malattia mentale, a seconda del reato commesso, della psicopatologia e della pericolosità sociale stabilita secondo i precetti della Legge 81/2014;

II presa in carico sociale e giuridica completa del soggetto;

III riduzione dell’utilizzo improprio delle strutture su richiesta dell’Amministrazione Giudiziaria, basata su criteri di ordine e sicurezza;

IV identificazione di linee guida evidence-based differenziate per patologie principali (disturbi psicotici, disturbi dell’umore, disturbi gravi di personalità);

V attenzione alle pubblicazioni internazionali sulla gestione del rischio di violenza e di aggressività auto/eterodiretta, che possano facilitare la gestione degli episodi violenti, auto- ed etero-aggressivi, in un ambito puramente sanitario (e non più custodialistico) come quello delle REMS.

PARTE SECONDA

2. Paziente psichiatrico autore di reato

Una percentuale variabile di cittadini italiani rientra ogni anno nelle statistiche che lo Stato redige sul fenomeno della criminalità: delittuosità per tipo di crimine, distribuzione geografica, stratificazione per sesso, età, condizione sociale e livello di istruzione. Ugualmente, una percentuale di cittadini italiani rientra nelle statistiche sanitarie che vengono approntate per studiare il fenomeno della malattia mentale, con i relativi valori di prevalenza, di incidenza, del numero dei ricoveri ospedalieri, del consumo di farmaci e, più in generale, con la messa a punto di indicatori in grado di valutare i percorsi di cura anche al fine di stimarne l’efficacia e la sostenibilità finanziaria.

A dispetto del fiorire di statistiche “settoriali” – ora sulla criminalità, ora sulla salute mentale – risulta invece frammentata e lacunosa la produzione di studi e ricerche in grado di tenere insieme la complessità della presa in carico del paziente in corso di esecuzione penale. Su questo tema risulta evidente la carenza di modelli integrati e di una cultura professionale psichiatrica che sappia fornire risposte sul campo, valorizzando le esperienze specifiche all’interno dell’ordito del quale è intessuto l’intreccio tra i percorsi giudiziari e i percorsi sanitari. Si ha un’evidenza chiara, infatti, che il paziente risulti come scisso, per non dire estraniato da se stesso, di fronte alla trafila di atti e decisioni prese dai molteplici attori che sovraintendono la complessità delle indagini e dell’avvio del processo penale. Forze dell’ordine, procuratori, avvocati, giudici, CSM, reparti di psichiatria (SPDC), ciascuno dei quali – agendo in buona fede e rispetto ai criteri e all’organizzazione dalla quale dipende – può sottovalutare l’impatto traumatico dell’esperienza di diventare autore di reato.

La stessa persona affetta da disturbo mentale e già in carico al Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze (nella Regione Lombardia indicato come DSMD) può dunque, nell’immediatezza del reato, essere ricoverato in SPDC con provvedimento cautelare. Successivamente può venire dimesso dall’ospedale ed essere annesso al carcere, dove viene preso in carico dallo psichiatra dell’équipe “tutela della salute mentale in carcere” secondo modalità e procedure proprie dell’ambiente detentivo e lì attendere per mesi l’espletamento della perizia disposta dal giudice: all’esito di quest’ultima finalmente venire assegnato a una REMS. Al riguardo sfugge, per lo più, il dato secondo il quale il mandato agli operatori della salute mentale si modifica sulla base del luogo istituzionale della presa in carico. In carcere il paziente è un detenuto che ha diritto alle cure in rapporto ai livelli essenziali di assistenza (LEA); in REMS il rispetto dei LEA vale come diritto sancito dalla carta costituzionale, tuttavia con un quid novi e un quid pluris che consiste nell’avere il giudice attribuito alla persona – paziente psichiatrico – anche la qualità di persona socialmente pericolosa (art. 203 c.p.) sulla base del disturbo mentale.

Non infrequentemente lo stesso paziente ha commesso reati diversi in tempi diversi e si trova in corso di fasi processuali diverse, difeso da avvocati diversi, motivo per cui la presa in carico psichiatrica deve fare i conti con prospettazioni di percorso che non possono prescindere dal committente giudiziario. Evenienza tutt’altro che rara è la possibilità di attivare un percorso di cura in esecuzione penale esterna, in libertà vigilata, con revoca dalla misura terapeutica della REMS. Nel volgere di qualche settimana può sopravvenire una nuova condanna, senza riconosciuta infermità di mente al momento del reato, con l’effetto che il paziente va incontro alla sospensione della libertà vigilata. A questo punto, per proteggere il paziente dalla carcerazione, si rende necessario un intenso lavoro di rete inter-istituzionale per approntare la misura alternativa al carcere con programma terapeutico, secondo le diverse opzioni previste dall’art. 47 ter dell’Ordinamento Penitenziario.

È questa la cornice drammaticamente complessa entro la quale ci si muove oggi e rispetto alla quale urge lo sviluppo di un framework in grado di risultare affidabile e rendicontabile, nell’interesse del paziente psichiatrico autore di reato e dello sviluppo di un sapere specialistico, multi-disciplinare in grado di tenere in carico la persona minimizzando, ove possibile, l’impatto clinico-sintomatologico del disturbo mentale sulla sua qualità esistenziale, mentre questa è letteralmente imprigionata nella segmentazione dei percorsi giudiziari che possono risultare, essi stessi, un supplemento di afflizione per la loro durata e la complessità delle sue regole.

2.1. Concetti sanitari e giuridici

Il paziente affetto da disturbo mentale (“psichiatrico”) autore di reato rappresenta una biografia, declinata sotto il profilo di una storia criminale e, al tempo stesso, di una storia clinica che – congiuntamente – determinano il perimetro entro il quale si trovano a interagire fattori che sono di ordine sanitario e di ordine giudiziario. Si tratta di una complessità epistemologica che obbliga il sapere clinico, psichiatrico e psicologico, a fornire risposte che perseguono la tutela della salute mentale sulla base di un contratto di cura che si realizza con l’intermediazione forte dell’ordinamento giudiziario nelle sue diverse articolazioni e funzioni: giudicante, requirente e dell’esecuzione penale. L’organizzazione della salute mentale, articolata nelle diverse strutture previste e regolamentate dalla legislazione – statale e regionale – del SSN, quando deve occuparsi del paziente psichiatrico autore di reato lo fa entro luoghi e percorsi di cura che sono sovradeterminati dalla giurisdizione penale: si parla, a questo livello, delle Articolazioni della Salute Mentale (ASM) in carcere, si parla delle REMS, si parla anche delle Comunità Terapeutiche (CT) oppure dei Programmi Domiciliari di Affidamento in Prova (PDAP) per motivi di cura. In ciascuno dei luoghi appena richiamati lo psichiatra si trova a svolgere il suo impegno professionale verso un paziente che gli viene affidato dall’ordinamento giudiziario secondo procedure e mandato i cui termini devono essere noti per chi si occupa di salute mentale; diversamente, si corre il rischio di commettere errori di prospettiva che possono danneggiare il paziente e meritare profili di responsabilità professionale.

Esiste, infine, un luogo del tutto particolare che è quello del tribunale e della perizia psichiatrica: in questo caso lo psichiatra è chiamato nelle vesti ibride di tecnico, ausiliario del giudice. Il cosiddetto esperto si pronuncia rispetto a quesiti che sono propri della cultura giuridica, quali l’infermità di mente, la responsabilità penale, la capacità processuale e la pericolosità sociale. Non di rado, specie nei gravi reati che salgono agli onori della cronaca, con la formula “dica il perito quanto altro utile ai fini di giustizia” si introduce la possibilità di tratteggiare il cosiddetto “profilo criminale”, nonostante il codice di procedura penale ne faccia divieto. Una deroga a questo divieto è prevista nella relazione psicologica e criminologica richiesta dal magistrato dell’esecuzione penale, per esempio in occasione delle udienze di riesame della pericolosità sociale, riservate ai pazienti – autori di reato – che si trovano nelle REMS, ma anche per quelli che sono sottoposti al regime della libertà vigilata (LV). Riferendosi al divieto della perizia criminologica nel corso del processo che deve stabilire la colpevolezza dell’individuo, questo assume un significato garantista dentro la cornice generale della cultura giuridica di derivazione romano-germanica, secondo l’impostazione per cui la tutela della libertà morale della persona è elevata a valore primario nell’assunzione della prova. «L’indagine sulla personalità, estromessa dal processo della cognizione, è stata collocata nella fase esecutiva, là dove non ci sono pericoli di inquinare l’accertamento del fatto con le congetture tratte da un’analisi personologica»32. Vero è pure che il corpo di conoscenze proprie della psicologia e, ancora maggiormente, quelle afferenti alla criminologia clinica, sono parte integrante della perizia psichiatrica: lo sono lo studio dell’elemento motivazionale del crimine e lo studio della dinamica esecutiva.

Il rapporto tra crimino-dinamica e crimino-genetica di una condotta antigiuridica, calato nel contesto ambientale, sociale ed etnico – quest’ultimo trascurato nonostante il fenomeno di una massiccia immigrazione – arricchiscono la perizia a tal punto da trasmettere al processo elementi di prova insostituibili per la verifica del grado di incidenza causale sul reato da parte di un quid novi, quid pluris, da attribuirsi al disturbo mentale33. Dunque, il divieto di valutare le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche rileva «ai fini dello scopo che deve motivare la perizia e non alle modalità che la stessa deve seguire, qualora questa sia stata disposta per accertare l’esistenza o meno di una infermità mentale o di una deficienza psichica»34.

2.1.1. Capacità di intendere e di volere

Sul tema vale da subito precisare che la “capacità di intendere e di volere” – come richieste in un’aula di giustizia e valutate disgiuntamente – sono funzioni psichiche che, benché oggetto delle conoscenze medico-psichiatriche, restano tuttavia predeterminate da definizioni proprie della dottrina giuridica, nel suo incedere e consolidarsi attraverso la giurisprudenza di legittimità della Cassazione. Questo non significa che il sapere giuridico resta cristallizzato: la storia della scienza giuridica ci insegna, infatti, che alla base di ogni tentativo di rendere più precisa e attuale la terminologia vi è lo sforzo di razionalizzare e di scientificizzare il diritto. In alcuni pensatori il «problema della precisione del linguaggio e delle sue formule giuridiche è stato confuso con quello della certezza del diritto»35.

Sulla base di quest’ultima affermazione si capisce quale acceso dibattito abbia innescato, da una decina d’anni, l’irruzione anche nel nostro paese del contributo offerto dalle neuroscienze attraverso le nuove tecniche di indagine cerebrale che rientrano nel campo del cosiddetto “neuroimaging” funzionale. Si parla di PET, fMRIA, e SPECTB, VBMC. Su tutti si veda la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Trieste, 1/10/2009, n. 5 (Pres. Rel. Reinotti), oggetto di ampio e prolungato dibattito nell’ambito del diritto e, più modestamente, nell’ambito della psichiatria. Da un lato, il contributo delle neuroscienze in ambito penale è ritenuto auspicabile per giungere a un quadro più preciso sui correlati scientifici, sperimentalmente dimostrabili, dell’aggregato di funzioni cerebrali che possono essere a presupposto della capacità di intendere e di volere; dall’altro si obietta che il processo deve restituire una decisione univoca sulla responsabilità penale dell’individuo e «nessuno auspica che nelle aule dei tribunali si arrivi a dire: non è stato lui ma i suoi neuroni»36. Il problema resta di ordine epistemologico, nel senso che la scienza medica nella sua disciplina psichiatrica e la scienza giuridica hanno metodi di indagine che possono allontanarsi, come in effetti si sono distanziati nel XX secolo, anche se entrambe contribuiscono a riempire di conoscenze il più universale dominio delle scienze umane. Il rapporto tra psichiatria e diritto «è in buona misura un rapporto speciale o privilegiato, in quanto ambedue i saperi hanno alla loro base anche i modelli teorici ovvero gli aspetti concreti delle condotte umane»37. Soltanto due anni dopo questa affermazione le Sezioni Unite Penali della Cassazione, in tema di capacità di intendere e di volere, sono approdate alla sentenza Raso, dal nome dell’imputato: i giudici, nel giungere a innovative conclusioni, si cimentano nell’impresa di fornire una complessa e articolata rivisitazione dei modelli scientifici rispetto ai quali si è evoluta la scienza psichiatrica, con le sue capacità diagnostiche e terapeutiche. Al termine dell’excursus che ripercorre visioni e correnti della psichiatria dal secolo scorso fino ai giorni nostri i giudici delle Sezioni Unite Penali arrivano a una sorta di assimilazione del processo di evoluzione storico-scientifica della psichiatria, per renderlo ancora attuale e fungibile nell’esercizio della giurisdizione penale. A tal proposito, si legge: «nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un modello integrato della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine»: trattasi, in sostanza, di «una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia, in tal guisa superandosi la visione eziologica mono-causale della malattia mentale, pervenendosi ad una concezione “multifattoriale integrata”. In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato medico, valorizzanti l’eziologia biologica della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica), e, contro i rischi di un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria dinamico-strutturale, che considera il comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico. Si assiste anche ad una rivalutazione del metodo nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di rigido codice psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale, ma piuttosto quello di “una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione”. In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM-IV, o l’ICPC o l’ICD-10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici. È stato anche rilevato che può, oggi, sicuramente ritenersi superata una concezione unitaria di malattia mentale, affermatasi, invece, una concezione integrata di essa, che comporta, tra l’altro, un approccio il più possibile individualizzato, con esclusione del ricorso a categorie o a vecchi e rigidi schemi nosografici» (SEZIONI PENALI UNITE, Sentenza n. 9163/2005 – 25.1- 8.3.2005). Si scorge, nella sentenza, la necessità del sapere giuridico di recuperare il cammino evolutivo della psichiatria, affinché sia ancora possibile lo scambio di linguaggi e di sapere. Da un lato, la capacità di intendere e di volere, data giuridicamente in astratto come funzione posseduta a priori dall’essere umano al compimento di una certa età, convenzionalmente 18 anni; dall’altro lato, i differenti gradi delle possibili varianti e limitazioni, che integrano l’“infermità mentale”, campo di indagine della psichiatria così sensibilmente cambiata rispetto ai suoi paradigmi tradizionali che facevano da sfondo nel dibattito in corso durante i lavori preparatori del codice penale38. Si aggiunga che la stessa definizione di infermità mentale rientra nel perimetro del sapere giuridico, ma questa viene tradotta nel criterio medico-psichiatrico quando viene diagnosticato un disturbo mentale, sulla base di criteri che si sono evoluti nel tempo, in rapporto alle nuove evidenze scientifiche, ma pure in rapporto al progresso economico e culturale della società che, entro certi limiti, ha condizionato e condiziona le modalità stesse entro le quali la patologia mentale si manifesta. Ci si riferisce, in particolare, ai disturbi di personalità, all’uso diffuso delle sostanze stupefacenti, ai disturbi dell’alimentazione, come alle nuove forme di dipendenza patologica (gambling e gaming) e pure agli effetti di alcuni farmaci, ricercati a scopo voluttuario. Il tema di una elasticità, di un allargamento delle forme patologiche – diverse rispetto al passato – in grado di incidere sulla capacità di intendere e di volere, si giustifica nella necessità delle scienze penali di assicurarsi la fungibilità dell’evoluzione del sapere clinico e della ricerca sui disturbi mentali. Tuttavia, sul tema in oggetto vanno evidenziati spunti di riflessione che trascendono il perimetro dei termini entro i quali si è discusso, per spostarsi sul tema più generale del rapporto tra la società e la sua cultura penale, tra il potere di sanzionare e la disponibilità a proteggere la fragilità.

La definizione stessa di “paziente psichiatrico autore di reato” apre scenari opposti. Un sistema giudiziario orientato alla sanzione penale tende ad allargare i criteri della responsabilità e a restringere quelli esimenti, abbracciando una visione esclusivamente centrata sul costrutto tassonomico-nosografico del disturbo mentale che rileva ai fini della valutazione della capacità di intendere e di volere. Viceversa, un sistema penale orientato alla protezione e al possibile recupero del reo, tende a restringere i criteri della responsabilità penale, ammettendo un più largo ventaglio di stati mentali patologici in grado di condizionare la capacità di intendere e di volere. Il nostro paese, secondo una dialettica costituzionalmente orientata, è andato stratificando – in tema di capacità di intendere e di volere – il costrutto normativo psicopatologico secondo il quale, accertato un disturbo mentale, è necessario dimostrare che il reato commesso assurga, in tutto o in parte, a sintomo del disturbo medesimo.

È certamente questo il compito più gravoso di responsabilità, etiche e professionali, per la psichiatria che opera nelle aule di giustizia, dal momento che il parere tecnico può determinare nel giudicato la formula dell’irresponsabilità penale per vizio della capacità di intendere e di volere del reo, la quale determina l’assoluzione, ovvero un notevole affievolimento della durata della pena. La psichiatria, quando prestata ai tribunali, si muove comunque nel solco dei criteri predeterminati dalla cultura giuridica, come più volte ripetuto, perché – allorquando venga dimostrata una forma psicopatologica clinicamente diagnosticabile, secondo criteri possibilmente basati sull’evidenza scientifica – resta comunque da dimostrare la sua incidenza sulla capacità di intendere e di volere, vale a dire il nesso causale tra il disturbo mentale e la condotta reato.

Sulla definizione di capacità di intendere e di volere è necessario riferirsi gli ancoraggi della cultura giuridica, puntualizzati dalla Sentenza Sezioni Unite Penali, n. 9163/2005. Si legge. «Quanto al contenuto della formula normativa dettata dall’art. 85 del codice sostanziale, la capacità di intendere pacificamente si riconosce nella idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, a «orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà», e quindi «nella capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni», ovvero di proporsi «una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta» (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); mentre «la capacità di volere consiste nella idoneità del soggetto medesimo ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l’azione, in modo coerente ai valori di cui è portatore», «nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base a una concezione di valore», nella attitudine a gestire «una efficiente regolamentazione della propria, libera autodeterminazione» (Cass., Sez. I, n. 13202/1990, cit.), in sostanza nella capacità di intendere i propri atti (nihil volitum nisi praecognitum), come ancora si esprime la dottrina; la quale pure avverte che, alla stregua della prospettiva scientifica delle moderne scienze sociali, in verità, «una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste, dovendo piuttosto la volontà umana definirsi “libera”, in una accezione meno pretenziosa e più realistica, nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca ad esercitare poteri di inibizione e di controllo idonei a consentirgli scelte consapevoli tra motivi antagonistici». Alla luce di queste definizioni richiamate dalla dottrina giuridica si è sviluppato di recente – nell’ambito di un ristretto gruppo di cultori della psichiatria forense italiana – il tentativo di mettere a punto uno strumento che cerchi di operare una valutazione strutturata della capacità di intendere e di volere basandosi sulla scomposizione delle possibili variabili di ordine clinico-concettuale che sono investigate per valutare tali capacità. Si tratta della Defendant’s Insanity Assessment Support Scale (DIASS)39. La DIASS è uno strumento sviluppato per supportare psichiatri e psicologi forensi nella valutazione della capacità di intendere e di volere, al momento del reato. È costituita da due componenti: una componente “epistemica” e una componente di “controllo” (inerente al controllo inibitorio degli impulsi). La DIASS deve essere utilizzata dall’esaminatore soltanto dopo aver analizzato tutta la documentazione sanitaria e legale che riguarda l’imputato, aver completato la valutazione clinica in corso di accertamento peritale e aver verificato la presenza di una relazione (nesso di causalità) tra l’alterazione mentale riscontrata e il crimine stesso. Relativamente alla componente epistemica (capacità di intendere) vengo registrate:

Contesto del crimine. Al momento del crimine, l’imputato ha interpretato in maniera seriamente errata la situazione (rispetto allo spazio, al tempo, all’ambiente)?

Natura dell’atto criminale. Al momento del crimine, l’imputato possedeva le capacità cognitive e percettive per comprendere la natura e qualità dell’atto criminale?

Valore antigiuridico del crimine e standard morale. Al momento del crimine l’imputato era in grado di comprendere che le sue azioni erano contro la legge? Al momento del crimine l’imputato era in grado di riconoscere che le sue azioni erano moralmente sbagliate o in contrasto con la morale e i principi generalmente accettati nella sua comunità?

Applicabilità dello standard morale soggettivo al proprio comportamento. Al momento del crimine l’imputato era in grado di valutare se le sue azioni fossero moralmente sbagliate o in contrasto con la morale e i principi che era solito accettare e applicare?

Relativamente alla componente del controllo interno (capacità di volere) vengono registrate:

Rispetto alla possibilità di non agire o alla possibilità di scelte alternative di azione. Lo stato di mente dell’imputato all’epoca dei fatti era compatibile con la percezione della possibilità di non agire?

Rispetto alle conseguenze (pro e contro). Lo stato di mente dell’imputato al momento del crimine era congruente con la possibilità di ragionare rispetto alle conseguenze dell’azione in termine di rischi e benefici, e di soppesare le differenti opzioni?

Integrazione delle informazioni rilevanti. Lo stato di mente dell’imputato al momento del crimine era congruente con la possibilità di decidere sulla base del pensiero logico e razionale?

Capacità di inibire il proprio comportamento. Al momento del crimine l’imputato era in grado di inibire il suo comportamento?

Abilità di programmare, organizzare, finalizzare l’azione. Al momento del crimine l’imputato era in grado di programmare, organizzare e finalizzare l’azione?

La DIASS rappresenta uno strumento certamente promettente, in grado di ancorare su criteri più affidabili e riscontrabili i processi decisionali della psichiatria nelle aule di giustizia. Al tempo stesso può rappresentare un valido contributo al servizio degli operatori del diritto, consentendo loro un approccio decisionale più condiviso e consapevole, dal momento che dovrebbe restare più manifesto e intuitivo per quale ragione ed entro quali limiti un disturbo mentale possa interagire sulla componente Epistemica e sulla componente di Controllo che integrano, rispettivamente, la capacità di intendere e di volere39.

2.1.2. Responsabilità e imputabilità

Ogni individuo acquisisce la “capacità mentale”, quando dispone – secondo convenzione giuridica – delle qualità psichiche in grado di assicurargli la capacità di agire con consapevolezza e libertà. Il concetto di capacità mentale rimanda a una generale definizione biologico naturalistica, mentre la capacità di agire con consapevolezza e libertà rimanda allo sviluppo del pensiero filosofico europeo, secondo un percorso che parte da Cartesio e vede in Leibniz la possibilità di trovare una prima moderna sistemazione del “libero arbitrio”, secondo l’approdo per cui «quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa far ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza». Il successivo sviluppo del tema, come approfondito da Kant, dischiude definitivamente lo spazio nel cui perimetro è potuto nascere il pensiero giuridico moderno della responsabilità penale, quale specificazione della più generale responsabilità morale. Infatti, secondo Kant, l’uomo – in quanto appartenente al mondo sensibile – risulta condizionato: nello stesso tempo l’uomo agisce moralmente sulla base del postulato della libertà, che si rinviene nella sua autonomia di obbedire a una legge che egli stesso liberamente si è dato. Questa premessa consente di cogliere appieno le radici storico-filosofiche che nutrono gli artt. 40 e 42 del nostro codice penale, dei quali si riportano i soli commi di interesse per la nostra trattazione.

«Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».

«Nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge».

Dunque, l’uomo risulta punibile dalla legge penale in conseguenza della sua azione o omissione dell’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, a condizione che lo abbia fatto con coscienza e volontà. Va tuttavia precisato come, in sede di accertamento tecnico, non venga richiesto allo psichiatra di esprimersi sulla “coscienza e volontà” della persona che ha esercitato «una azione od omissione preveduta dalla legge come reato». Piuttosto lo psichiatra viene richiesto di esprimersi sulla «capacità di intendere e di volere al momento del fatto». La coscienza e volontà non è un inutile duplicato della capacità di intendere e di volere, richiesta per l’imputabilità dall’art. 85 c.p.: «Infatti, mentre la prima condizione rappresenta uno status personale, l’imputabilità riguarda il rapporto specifico tra volontà del soggetto ed un determinato atto. L’individuo può essere imputabile e ciò nonostante può compiere un’azione senza coscienza e volontà, come nel caso del sonnambulismo»40.

In altri termini, coscienza e volontà giocano un ruolo nell’attribuzione oggettiva della condotta penalmente rilevante, attiva od omissiva, contribuendo a integrare il concetto del dolo, della colpa e della preterintenzionalità. Integrano il tipo di addebito penale. Diversamente il concetto di imputabilità, rappresentato nel Titolo IV - DEL REO E DELLA PERSONA OFFESA DAL REATO - Capo I - DELLA IMPUTABILITÀ - Art. 85 (Capacità d’intendere e di volere), integra il concetto di punibilità dell’autore della condotta penalmente rilevante, attiva od omissiva, secondo la formula: «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere». L’art. 85 c.p. deve leggersi in combinato disposto con i successivi articoli del codice penale che, analiticamente, passano in rassegna le diverse condizioni psichiche in rapporto alle quali l’imputabilità può essere esclusa, diminuita ovvero conservata, con la possibilità di un aumento della pena. Si tratta degli articoli da 88 a 98 c.p. di seguito elencati.

– Art. 88 - Vizio totale di mente. Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere.

– Art. 89 - Vizio parziale di mente. Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita.

– Art. 90 - Stati emotivi o passionali. Gli stati emotivi o passionali non escludono nè diminuiscono l’imputabilità.

– Art. 91 - Ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore. Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità d’intendere o di volere, a cagione di piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore. Se l’ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, la pena è diminuita.

– Art. 92 - Ubriachezza volontaria o colposa ovvero preordinata. L’ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore non esclude nè diminuisce l’imputabilità. Se l’ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata.

– Art. 93 - Fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti. Le disposizioni dei due articoli precedenti si applicano anche quando il fatto è stato commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti.

– Art. 94 - Ubriachezza abituale. Quando il reato è commesso in stato di ubriachezza, e questa è abituale, la pena è aumentata. Agli effetti della legge penale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza. L’aggravamento di pena stabilito nella prima parte di questo articolo si applica anche quando il reato è commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti da chi è dedito all’uso di tali sostanze.

– Art. 95 - Cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti. Per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 e 89.

– Art. 96 - Sordomutismo. Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità la capacità d’intendere o di volere. Se la capacità d’intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita.

– Art. 97 - Minore degli anni quattordici. Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni.

– Art. 98 - Minore degli anni diciotto. È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere; ma la pena è diminuita. Quando la pena detentiva inflitta è inferiore a cinque anni, o si tratta di pena pecuniaria, alla condanna non conseguono pene accessorie. Se si tratta di pena più grave, la condanna importa soltanto l’interdizione dai pubblici uffici per una durata non superiore a cinque anni e, nei casi stabiliti dalla legge, la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori o dell’autorità maritale. 

2.1.3. Pericolosità sociale

La definizione di “pericolosità sociale” è stata introdotta nell’ordinamento giuridico italiano dal 1930, come enunciato all’art. 203 c.p., comma 1 che recita «Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati». Rappresenta il presupposto in ragione del quale possono essere disposte le misure di sicurezza, minuziosamente regolamentate dal Titolo VIII - DELLE MISURE AMMINISTRATIVE DI SICUREZZA - Capo I - DELLE MISURE DI SICUREZZA PERSONALI. Il costrutto della pericolosità sociale rappresenta il compromesso storico-ideologico tra la Scuola positiva e la Scuola classica, rispetto al diverso modo di concepire il reato e la sanzione penale. Secondo la Scuola classica il reato è il risultato della libera scelta dell’individuo, la pena è comminata in funzione retributiva al disvalore del reato. La Scuola positiva pone a fianco del reato la centralità del reo, legando il reato a fattori criminali individuali, di fronte ai quali lo Stato dispone di un apparato che esercita la funzione preventiva ai fini della difesa sociale contro i delitti. Dunque tra Scuola classica e Scuola positiva gli accenti sono rispettivamente posti in questo modo: nella prima, «la funzione della pena sarebbe legata ad esigenze di mera espressione del “fatto” dannoso o pericoloso commesso, e la sua durata proporzionata al male commesso»; nella seconda, «la pena sarebbe fondata sulla necessità di prevenire ulteriori reati da parte dell’“autore” del reato, e la sua durata indeterminatamente legata alla pericolosità del reo»41. Dunque, secondo la Scuola positiva – che affonda la sua giustificazione nella cultura ottocentesca dell’antropologia criminale – viene a legittimarsi l’idea della pericolosità, individuata come capacità di commettere altri reati, sulla base di elementi individuali del reo e/o del suo contesto sociale di appartenenza. Esula dagli scopi della presente trattazione la lunga teoria di studi che affonda le radici da Lombroso42 per approdare al Ferri43.

Il codice Rocco, definita la pericolosità sociale, introduce il sistema del doppio binario, attraverso le pene e le misure di sicurezza, il cui rapporto viene felicemente descritto dalla Collica41, secondo la quale «la funzione repressiva è legata alla pena, che trova il suo fondamento e il suo limite nella colpevolezza e nella imputabilità del reo (responsabilità-pena), mentre il principio di pericolosità rende conto delle misure di sicurezza, volte alla funzione di prevenzione sociale del reo e applicabili ai soggetti imputabili allorché la pena classica è ritenuta insufficiente, e ai non imputabili come misura sanzionatoria esclusiva». È bene precisare che la pericolosità dell’autore di reato diviene campo d’interesse della psichiatria per lo stesso motivo per il quale la stessa psichiatria è chiamata a fornire il suo contributo nella valutazione dell’imputabilità. Se, infatti, il reo risulta non imputabile per vizio totale ovvero, pure rispondendo del reato, risulta con un vizio parziale di mente, il codice penale richiede che sia valutata la pericolosità sociale del soggetto, direttamente ed esclusivamente dipendente dal suo disturbo mentale. Sul tema è doveroso operare un richiamo al fatto che la psichiatria, pure nell’ambito della eterogeneità dei modelli scientifici di riferimento rispetto ai quali declinare la sua previsione prognostica, deve restare ancorata alla cornice normativa imposta dal codice penale, precisamente al comma 2 dell’art. 203 (Pericolosità Sociale), che rimanda all’art. 133 c.p. (Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena). Questo articolo rappresenta l’incastro nel quale finiscono per saldarsi psichiatra e funzione valutativa del giudice, pure nel rispetto delle diverse attribuzioni di ruolo e competenza. Il comma 2 dell’art. 133 c.p. recita «Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo». La psichiatria, svolgendo una funzione ausiliaria del giudice, sia durante il processo, sia durante l’esecuzione della misura di sicurezza, viene chiamata a esprimersi sulla valutazione finale di pericolosità sociale del paziente autore di reato, facendo i conti con la necessità di attualizzare il proprio modello prognostico, in rapporto a indicatori clinici, diagnostici, terapeutici e di esito, che comportano la necessità di avvalersi di dati basati sull’evidenza scientifica. Questo aspetto è tanto più vero se si considera che sul tema della pericolosità sociale del “folle reo” sia la cultura psichiatrica come quella giuridica hanno fatto registrare un percorso di continua e reciproca evoluzione rispetto alle posizioni concettuali che risalivano ai tempi della promulgazione del codice Rocco. La Corte Costituzionale ha rimodellato progressivamente il costrutto della pericolosità sociale, adottando pronunce che da un lato hanno accolto l’evolversi delle conoscenze mediche in tema di trattamento dei disturbi mentali e, dall’altro, hanno tenuto conto della nuova organizzazione delle cure che si è sviluppata con la nascita del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che ha recepito la Legge 180/1978, spostando l’interesse sulla persona, sulla tutela della salute mentale, sul soddisfacimento dei suoi bisogni, piuttosto che sul disturbo e sulla presunzione delle sue conseguenze, quali la «pericolosità per sé, per gli altri ed il pubblico scandalo» (vedi l’art. 1 della Legge 14.2.1904 n. 36).

I giudici della Corte Costituzionale, ancora prima della legge 180, si erano espressi sulla illegittimità delle norme che prevedevano tale presunzioneD ovvero sulla rigidità delle misure di sicurezza, revocabili soltanto dopo la loro durata minimaE. Il legislatore, con l’art. 31 della Legge 663/1986, ha cancellato la presunzione di pericolosità, per cui tutte le misure di sicurezza – detentive e non – vengono ordinate dal giudice previo accertamento della pericolosità sociale del soggetto, da valutarsi al momento dell’applicazione della misura stessa. Le misure di sicurezza sono inoltre revocabili, sempre e comunque, a prescindere dalla loro durata minima, attraverso l’istanza della parte, finalizzata alla revisione della pericolosità. Ed è proprio la psichiatria con la sua organizzazione territoriale e con i riferimenti allo sviluppo delle nuove conoscenze in tema di trattamento del malato mentale autore di reato, che ha consentito alla Corte Costituzionale di completare il suo lavoro di decostruzione dei criteri rigidi e aprioristici della pericolosità, originariamente nati con il codice Rocco38. Ci si riferisce alle due sentenze gemelle (n. 253/2003 e 367/2004) che hanno introdotto la possibilità, per il giudice, di scegliere il tipo di misura di sicurezza, secondo criteri di flessibilità, potendosi avvalere di percorsi di cura in grado di contemperare il diritto alla salute, di cui all’art. 32 della Costituzione, con la funzione giurisdizionale del controllo sociale, che consegna alla psichiatria il dovere del monitoraggio sull’esito dei trattamenti stessi, finalizzato al giudizio di pericolosità.

È bene ribadire che il rimodellamento nella concezione giuridica della pericolosità sociale se, da un lato, è stato possibile anche grazie all’evoluzione positiva della cultura professionale psichiatrica, dotata di nuovi e aggiornati strumenti di analisi e di monitoraggio dei trattamenti integrati e multi disciplinari, dall’altro lato tale rimodellamento è andato sempre di più consegnando alla stessa psichiatria un mandato di cura e controllo, che ha il suo approdo nella legislazione nazionale e regionale di chiusura dei manicomi criminali, rimaste strutture carcerarie dalla loro nascita, gestite dall’amministrazione penitenziaria, con il contributo variabile, per quantità e qualità, di medici e operatori sanitari, comunque dipendenti dal Ministero della Giustizia. Tale processo riformatore di chiusura degli OPG si è caratterizzato per avere consegnato la delega al SSN di occuparsi e gestire il trattamento del malato mentale autore di reato, su committenza della magistratura che la esercita durante la fase del processo e durante l’esecuzione definitiva della misura di sicurezza con le procedure della giurisdizione penale e al fine di contenere con mezzi terapeutico-riabilitativi la pericolosità sociale del paziente psichiatrico autore di reato. La riforma ha lasciato invariati i dispositivi legislativi che innescano e regolamentano le misure di sicurezza, fatta eccezione il rimodellamento del criterio della pericolosità sociale, operato dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari) convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 maggio 2014, n. 81. Il testo della legge ha infatti previsto che «l’accertamento della pericolosità sociale è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penaleF» e che «non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali». La Corte costituzionale, investita dal Tribunale di Sorveglianza di Messina sulla legittimità della su richiamata legge, ha precisatoG «Anche altre disposizioni dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011 sono dirette a favorire l’applicazione di misure diverse da quelle detentive. In questo senso è chiaro il sesto comma di tale articolo, il quale stabilisce che il programma predisposto dalle Regioni ed approvato dai Ministeri competenti deve prevedere, oltre agli interventi strutturali, “attività volte progressivamente a incrementare la realizzazione dei percorsi terapeutico-riabilitativi […] nonché a favorire l’esecuzione di misure di sicurezza alternative al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o all’assegnazione a casa di cura e custodia”. È chiaro che in questa prospettiva l’inefficienza delle amministrazioni sanitarie regionali nel predisporre programmi terapeutici individuali non può tradursi nell’applicazione di misure detentive, inutilmente gravose per l’infermo e il seminfermo di mente. È da aggiungere cha la normativa in questione appare in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che ha dichiarato illegittimi, sia l’art. 222 cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale (sentenza n. 253 del 2003), sia l’art. 206 cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva prevista dalla legge per il raggiungimento dello stesso obiettivo (sentenza n. 367 del 2004). Ciò posto, è evidente che la disposizione censurata non ha modificato, neppure indirettamente, per le persone inferme di mente o seminferme di mente, la nozione di pericolosità sociale, ma si è limitata ad incidere sui criteri di scelta tra le diverse misure di sicurezza e sulle condizioni per l’applicazione di quelle detentive».

2.2. Percorso giuridico dell’autore di reato con disturbi mentali e fasi di applicazione delle Misure
di Sicurezza

Il percorso giuridico dell’autore di reato con disturbo mentale è regolamentato dalle norme del codice di procedura penale, che rendono “operative” le norme fondamentali del codice penale, nel rispetto del diritto di difesa e della funzione “terza” del Giudice. Nello sviluppare questo paragrafo è necessario precisare che la recente legislazione nazionale di superamento dell’OPGH ha determinato, come già richiamato, la centralità dei Dipartimenti di Salute Mentale e Dipendenze (nella regione Lombardia DSMD) talché negli ultimi anni, anche sulla base di due documenti del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), sono stati prodotti – nelle diverse regioni italiane – documenti definiti “Protocolli d’Intesa tra gli Uffici Giudiziari ed i DSMD”, con lo scopo di creare e consolidare buone pratiche di collaborazione tra sanità e giustizia, tenuto sempre conto che nella definizione del percorso dell’autore di reato con disturbo mentale la funzione giurisdizionale è predeterminata. Tuttavia a disposizione del giudice e delle procure, specie nell’immediatezza del reato, esiste la possibilità di disporre di diverse opzione, la cui scelta è facilitata soltanto nell’ambito della collaborazione tra magistratura e DSMD. Molto sinteticamente, il percorso giuridico dell’autore di reato con disturbi mentali può essere diviso in tre momenti:

1. La fase cautelare, le cui soluzioni dipendono dalle indagini del Pubblico Ministero, il quale si trova a considerare molteplici fattori relativi al tipo di reato e alla personalità dell’indagato. In particolare la procura valuta la natura e la gravità del reato, la protezione della/e vittima/e, la pregressa storia criminale e, qualora il soggetto sia noto al DSMD di residenza, la storia clinica, affinché possano essere messe in campo le opzioni di tipo sanitario, che rappresentano passaggi decisivi della fase cautelare, certamente rese possibili dalla collaborazione fornita dal DSMD di residenza. Il Pubblico Ministero, anche in ragione delle tempestive informazioni fornite dal DSMD di residenza dell’indagato, può disporre consulenza tecnica ex artt. 359 e 360 c.p.p. ed ex art. 73 Dlgs.vo 28 luglio 1989 n. 271. Si aggiunge che il Pubblico Ministero nelle fasi delle indagini può segnalare il caso al Giudice, affinché l’indagato sia affidato al competente DSM-D, richiedendo che questo predisponga un progetto di presa in carico, secondo quanto prevede l’art. 73 del c.p.p.I. Durante questa fase la persona indagata di solito risulta ristretta in carcere, con la formula degli arresti cautelari. Se le condizioni mentali sono particolarmente gravi può venire ricoverato nel più vicino SPDC, con la presenza delle forze dell’ordine, qualora ritenuto necessario dal Giudice e/o su richiesta del direttore dell’SPDC (art. 286 c.p.p.)J. Vi sono infine casi per i quali vengono disposti gli arresti cautelari al domicilio, con presa in carico del DSMD con o senza la formula prevista all’art. 73 del c.p.p.

2. La fase propriamente processuale, nella quale risulta decisivo il tipo di rito prescelto dalla difesa, condiviso con il Pubblico Ministero e comunque accettato dal Giudice. Il tipo di scelta processuale dipende sia dalla gravità del reato, sia dalla strategia difensiva. Anche in questo caso il precoce e attivo coinvolgimento del DSMD consente di stimolare la scelta del rito, soprattutto nell’ipotesi che la procura non abbia disposto durante le indagini la consulenza tecnica, mentre la difesa ritenga che il reato possa essere stato condizionato dal disturbo mentale. Si tratta del rito abbreviato nel quale il Giudice, che presiede l’udienza preliminare (GUP) ovvero le indagini preliminari (GIP), nel cosiddetto “incidente probatorio” dispone la perizia psichiatrica, nominando il suo perito d’ufficio ex artt. 392 e 398 c.p.p. ed ex art. 67 Dlgs.vo 28 luglio 1989 n. 271. Se trattasi di rito dibattimentale, il Giudice dispone la consulenza tecnica d’ufficio ex art. 508 c.p.p. ed ex art. 67 Dlgs.vo 28 luglio 1989 n. 271. In questa fase “propriamente processuale” l’autore di reato con disturbi mentali beneficia, in tempi e modi diversi, di tre possibili percorsi di presa in carico, su disposizione dell’autorità giudiziaria, di seguito elencati.

a In carcere, con trattamento integrato psichiatrico e psicologico, secondo i livelli assistenziali che sono assicurati in ciascuna Regione da delibere di attuazione degli accordi Stato – Regioni, in tema di salute mentale negli istituti penali. Si aggiunge che le Regioni rendono disponibili, in numero variabile, all’interno di alcuni istituti penali, i Centri per l’Osservazione Psichiatrica, finalizzati a rendere possibili le disposizioni di cui all’art. 112 del Regolamento di Attuazione dell’Ordinamento Penitenziario. Questa modalità di presa in carico riguarda molti pazienti autori di reato, sia nella fase dell’espletamento della perizia psichiatrica, finalizzata a verificare l’imputabilità, sia nella fase dell’esecuzione provvisoria della Misura di Sicurezza (MdS), quando l’infermità è stata accertata, ma non è disponibile il posto letto in REMS. Non di rado si parla di pazienti con gravi patologie mentali per i quali è stato dimostrato il vizio totale di mente, con una pericolosità sociale compatibile con la libertà vigilata, secondo un progetto da predisporsi a cura del DSMD competente per territorio, ma che tuttavia fatica a essere realizzato, per motivazioni che saranno trattate in altra sezione del presente lavoro.

b In REMS, per applicazione della MdS in via provvisoria, secondo il combinato disposto degli art. 206 c.p. e 312-313 c.p.p. Si tratta di pazienti per i quali è stato già accertato il vizio di mente e rispetto ai quali la valutazione peritale ha verificato un livello di pericolosità tale da non potere essere gestita sul territorio, con programmi del DSMD da realizzarsi secondo le previsioni dell’art. 228 c.p. (Libertà Vigilata).

c In CT oppure al domicilio con programma territoriale del competente DSMD, in applicazione del provvedimento provvisorio della Libertà Vigilata, con prescrizioni terapeutiche, previste in ordinanza del Giudice, approntate dal Direttore del DSMD e monitorate dall’équipe che ha direttamente in carico il paziente. Va detto che le specifiche legislazioni regionali hanno significativamente diversificato sul territorio nazionale i livelli organizzativi e di dotazione organica delle residenze in regime di accreditamento. Non si può sottacere l’evidenza, pure con diversità regionali, secondo la quale la maggioranza dei posti letto residenziali sono gestiti dal privato accreditato. Questa differenziazione può risultare impattante nell’attribuzione delle responsabilità rispetto alla conduzione dei casi in regime di LV laddove, pure restando affidata la presa in carico del paziente autore di reato al competente DSMD, ciò non di meno possono crearsi aree di incertezza nei flussi informativi, nella distribuzione delle responsabilità in rapporto all’équipe della residenza accredita che gestisce direttamente il caso, al DSMD che è l’inviante pagatore e alla magistratura, che deve autorizzare i possibili livelli di crescente autonomia, previsti nello sviluppo del progetto terapeutico. Si deve sottolineare infine, relativamente alla complessità degli attori coinvolti durante la fase processuale del paziente autore di reato, sottoposto al regime della LV provvisoria, che il fascicolo processuale resta nelle mani del giudice procedente che ancora non ha emesso sentenza talché, semestralmente, il perito incaricato è investito della responsabilità di verificare l’esito del percorso e relazionare all’autorità giudiziaria.

3. La fase dell’esecuzione della sentenza passata in giudicato. L’autore di reato con disturbi mentali può andare incontro a diverse soluzioni che dipendono dalla condizione giuridica e dal livello di organizzazione territoriale dei DSMD. Si possono schematicamente prevedere quattro percorsi, che sono dinamici e in rapporto tra di loro, tenuto presente che sulla loro agibilità incidono sia l’autorità giudiziaria sia le competenze della difesa sia i livelli organizzativi dei DSMD.

a L’autore di reato con disturbi mentali ha avuto una sentenza definitiva che non ha riconosciuto il vizio di mente. Resta imputabile e risponde con la pena detentiva. Ciò non di meno presenta un grave disturbo mentale per il quale è prevista la presa in carico dell’organizzazione della tutela della salute mentale attiva nell’istituto penale, direttamente fornita dal DSMD nel cui bacino insiste il carcere. Al riguardo possono esservi problemi sull’evidenza che una quota significativa di detenuti è ristretta in istituti penali alquanto distanti dal territorio di residenza del detenuto. È dunque necessario il mantenimento della presa in carico del DSMD di residenza perché al detenuto possano essere offerte tutte le opzioni previste dalle misure alternative di cui all’art. 47 e seguenti della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario). Sul tema è solo il caso di ricordare la recente pronuncia della Corte Costituzionale, la n. 99 del 2019. La sentenza è intervenuta in seguito alla legge di superamento degli OPG, rispetto alla quale è venuta meno la fruibilità dell’art. 148 c.p.K. La Corte ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter. Di fatto la Corte ha consentito la detenzione domiciliare, con programma terapeutico (anche in comunità terapeutica) per condannati con pena superiore a quattro anni, che rappresentava il limite sopra il quale non era attivabile questo beneficio di legge. Dipende dunque dal DSMD di residenza la possibilità, a discrezione della magistratura di sorveglianza, che il detenuto con grave patologia mentale possa beneficiare del programma terapeutico-riabilitativo per lui predisposto. La fruibilità di questo beneficio risulta inoltre strettamente collegata all’intervento proattivo degli UEPE, i quali sono dipendenti dal Ministero della Giustizia e articolati su base provinciale, facendo capo in via gerarchica a un direttore che di norma ha sede nel mandamento della Corte d’Appello del distretto giudiziario di riferimento. Ciascuna direzione UEPE è collegata funzionalmente al Tribunale di Sorveglianza, sito nel distretto della Corte d’Appello, articolato negli Uffici di Sorveglianza che hanno sede provinciale.

b L’autore di reato con disturbi mentali ha avuto una sentenza definitiva che ha riconosciuto il vizio di mente parziale e pericolosità sociale. La persona risponde del reato, la sentenza prevede la pena detentiva, ridotta di un terzo, e la MdS in REMS, una volta scarcerato. Il fatto che il detenuto sia in carcere significa che la sentenza non ha previsto la sospensione della pena oppure che il detenuto non è stato ammesso, o non ha richiesto, uno dei possibili benefici di cui art. 47 e seguenti dell’Ordinamento Penitenziario (OP). In quest’ultimo caso si deve ritenere che la sentenza che aveva riconosciuto il vizio parziale di mente e la condizione di pericolosità sociale tale da meritare l’art. 219 (applicazione Casa di Cura e Custodia) ha previsto l’anticipo della pena detentiva, ai sensi dell’arti. 220 c.p.L. Per esperienza sul campo, la legge di superamento dell’OPG – con la creazione delle REMS, strutture sanitarie residenziali a conduzione psichiatrica – ha creato le “condizioni ambientali” per cui il giudice molto raramente decide di fare anticipare la pena detentiva. Ha di fronte un malato mentale, ritenuto semi-infermo e pericoloso socialmente. Questo dato induce il magistrato a dare la precedenza al percorso di tutela della salute mentale, rispetto alle esigenze di custodia carceraria. Tale orientamento comporta la scarcerazione e l’inserimento in REMS, lasciando in sospeso il residuo di pena, che potrà eventualmente essere trasformato nelle misure alternative. In questi casi il lavoro sul paziente da parte dell’équipe sanitaria REMS, in collaborazione con l’équipe del DSMD di residenza, consente, in un tempo variabile che dipende da molteplici fattori, la revoca della MdS detentiva, con successivo programma che il DSMD di residenza può predisporre per il trattamento domiciliare ovvero residenziale, cogliendo le opportunità dell’affidamento terapeutico in misura alternativa alla pena detentiva, secondo il già richiamato schema di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354.

c L’autore di reato con disturbi mentali ha avuto una sentenza definitiva che ha riconosciuto la non imputabilità. La sentenza ha disposto la «MdS del ricovero in OPG, da eseguirsi in REMS»M, per la durata minima, che dipende dalla gravità del reato (art. 222 c.p.). L’ingresso in REMS avviene sulla base dell’ordine di esecuzione della procura dell’ufficio giudiziario che ha emesso la sentenza. Dal punto di vista amministrativo l’assegnazione alla REMS è effettuata dall’ufficio detenuti e internati, con sede a Roma, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), il quale provvede alla verifica dell’effettiva residenza della persona, assegnandola alla/e REMS della regione di residenza. Questa procedura è regolata dall’Accordo Stato – Regioni del 26 febbraio 2015, “disposizioni per il superamento degli OPG”. In caso di soggetto senza fissa dimora, straniero o italiano, il DAP provvede all’assegnazione della REMS, riferendosi all’ultima residenza o domicilio o all’ambito di competenza del tribunale che ha celebrato o sta celebrando il processo. La provenienza della persona che fa ingresso in REMS è distribuita, mediamente, per il 60% da un istituto penale, per il 35% da strutture psichiatriche e per il restante 5% dal domicilio. Il percorso REMS dipende da molte variabili, oggetto di specifica trattazione in altra sezione di questo articolo. La dimissione dalla REMS avviene per provvedimento del Magistrato di Sorveglianza della provincia nella quale è ubicata la struttura. I percorsi riabilitativi esterni alla REMS, realizzati sul territorio, sono consentiti da specifici atti autorizzativi del magistrato, sulla base di motivata proposta dell’équipe curante, avallata dal direttore psichiatra. Si tratta di uscite ad horas, oppure di piani di trattamento continuativi di cui all’art. 21 OP. oppure di uscite multiple, anche al domicilio, per consentire al DSM-D di residenza di sviluppare e monitorare complessi progetti di dimissione, là dove la casistica degli ultimi anni restituisce una quota incrementale di ingressi in REMS di pazienti in “doppia diagnosi”, per i quali è necessaria la stretta collaborazione con i servizi delle dipendenze (SerT). La dimissione definitiva avviene comunque sulla base della valutazione della pericolosità sociale, fissata dal giudice di sorveglianza in specifica udienza del riesame, di cui al combinato disposto previsto agli artt. 208 c.p., 678, 679 c.p.p. Si deve distinguere tra una dimissione in prova dalla REMS, secondo il progetto concordato con il DSM-D competente, che avviene entro i sei mesi dalla data fissata per il riesame della pericolosità sociale, secondo la formula della Licenza finale Esperimento (LFE - Art. 53 OP), con la dimissione definitiva, in quanto giuridicamente provveduta dal magistrato, che determina la revoca della MdS, anche anticipatamente al termine minimo della sentenza, con o senza la trasformazione nella misura detentiva nella LV, da attuarsi con prescrizioni terapeutiche e l’obbligo di elezione di domicilio.

d L’autore di reato con disturbi mentali ha avuto una sentenza definitiva che ha riconosciuto la non imputabilità, ma la valutazione della pericolosità sociale, effettuata dal perito del giudice, sempre più spesso in collaborazione con il DSMD di residenza, ha consentito l’applicazione definitiva in sentenza della Misura di Sicurezza della LV, ai sensi dell’art. 228 del c.p. Si tratta di una misura territoriale, di durata nel minimo di un anno, durante la quale il paziente deve rispettare prescrizioni terapeutiche e sottoporsi al controllo formale delle locali forze dell’ordine. La revoca finale della LV avviene con le stesse procedure già sopra richiamate per le MdS dell’OPG o della Casa di cura e Custodia (CCC) di cui al precedente paragrafo.

2.2.1. Misure di sicurezza detentive

Il codice penale della Repubblica, R. D. 19 ottobre 1930, in vigore dal 1° luglio 1931, riserva al Titolo VIII (articoli da 199 a 235) l’elenco e le condizioni di applicabilità delle misure di sicurezza personali. Il codice enumera all’articolo 215 le diverse specie di misura di sicurezza applicabili, distinguendo tra quelle detentive e quelle non detentive, con la specifica che «quando la legge stabilisce una misura di sicurezza senza indicarne la specie, il giudice dispone che si applichi la libertà vigilata, a meno che, trattandosi di un condannato per delitto, ritenga di disporre l’assegnazione di lui a una colonia agricola o ad una casa di lavoro». Costituisce misura di sicurezza detentiva l’assegnazione a colonia agricola o a casa di lavoro (art. 216 c.p.). Questa tipologia di MdS detentiva è riservata a: 1) coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza; 2) coloro che, essendo stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e non essendo più sottoposti a misura di sicurezza, commettono un nuovo delitto, non colposo, che sia nuova manifestazione della abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere. Talvolta viene riservata anche a malati mentali autori di reato con una lunga storia criminale alle spalle, spesso collegata all’uso di alcool e/o sostanze stupefacenti. Dopo il ricovero in REMS, in prevalenza sulla base di un vizio parziale di mente, trascorso un adeguato tempo di trattamento, la MdS di natura sanitaria viene trasformata nel ricovero in casa lavoro. Il giudice di sorveglianza prende atto che il profilo psichiatrico e i bisogni di cura sono stati erogati con il raggiunto beneficio sul piano della riduzione fenomenica della psicopatologia e del profilo comportamentale. Pertanto, sulla base di una relazione psichiatrica che esclude la pericolosità su base clinica, decide autonomamente che sussiste ancora in capo alla persona una pericolosità sociale di natura non clinica, motivo per cui trasforma la MdS della CCC nella nuova MdS di cui al già richiamato art. 216 c.p.

Altra MdS detentiva, “da eseguirsi in REMS”, è costituita dal ricovero in CCC, ai sensi dell’art. 219 c.p. Come già illustrato, questa MdS viene applicata nella situazione di vizio parziale di mente, nelle fattispecie degli artt. 89, 95 e 96 c.p. La durata minima è di mesi sei, per reati con pena edittale fino a 5 anni, di anni uno, per reati con pena edittale nel minimo di anni 5, di anni tre per reati con pena edittale nel minimo di anni 10.

La MdS del ricovero in OPG, “da eseguirsi in REMS”, è regolamentata dall’art. 222 c.p. Viene disposta sulla base dell’accertamento del vizio totale di mente, riconducibile alle fattispecie degli artt. 88, 95 e 96 c.p.

In tema di MdS detentive vanno ancora tenuti a mente gli artt. da 211 a 214 del c.p che possono avere rilevanza nella pratica della gestione dei malati mentali autori di reato.

L’art. 211 c.p. - Esecuzione delle misure di sicurezza - prevede che le misure di sicurezza aggiunte a una pena detentiva sono eseguite dopo che la pena è stata scontata o è altrimenti estinta. Si tratta della Libertà Vigilata, che può essere disposta in sentenza quale misura di controllo sociale al termine di una pena per reati gravi e/o per reato commesso con particolare efferatezza.

L’art. 212 c.p. - Casi di sospensione o di trasformazione di misure di sicurezza - prevede che l’esecuzione di una misura di sicurezza applicata a persona imputabile, per esempio semi-infermo oppure delinquente abituale, è sospesa se questa deve scontare una pena detentiva, e riprende il suo corso dopo l’esecuzione della pena. Il comma 2° recita che se la persona sottoposta a una misura di sicurezza detentiva è colpita da un’infermità psichica, il giudice ne ordina il ricovero in un manicomio giudiziario, ovvero in una casa di cura e di custodia. In questo caso si tratta di persona sottoposta alla MdS della Casa lavoro (art. 216 c.p.) che può fare per questo motivo ingresso in REMS. La valutazione psichiatrico forense in questi casi è particolarmente complessa, perché non di rado si tratta di soggetti di notevole spessore criminale che possono simulare lo stato di infermità. Non si dimentichi che la riforma di superamento degli OPG non ha interessato gli istituti dedicati alla MdS detentiva della Casa Lavoro, che restano a tutti gli effetti strutture penitenziarie.

L’art. 213 c.p. - Stabilimenti destinati alla esecuzione delle misure di sicurezza detentive. Regime educativo, curativo e di lavoro - prevede che le donne siano assegnate ma, comunque, restino separate dagli uomini in corso di MdS detentiva. Sul tema è in corso un dibattito dopo la legge di riforma di superamento dell’OPG44.

L’art. 214 c.p. - Inosservanza delle misure di sicurezza detentive - prevede che, nel caso in cui la persona sottoposta a misura di sicurezza detentiva si sottragga volontariamente alla esecuzione di essa, ricomincia a decorrere il periodo minimo di durata della misura di sicurezza dal giorno in cui a questa è data nuovamente esecuzione. Tale disposizione non si applica nel caso di persona ricoverata in un manicomio giudiziario o in una casa di cura e di custodia (REMS).

In generale, per applicare le MdS di cui ai richiamati articoli del c.p. è necessario che la persona abbia commesso il reato dopo il compimento della maggiore età, che il reato non sia colposo, che si tratti di delitti per i quali la legge non stabilisce la pena pecuniaria e, infine, che il reato preveda la reclusione per un tempo superiore nel minimo ad anni due. Vale infine ricordare il terzo comma, articolo 25 della Costituzione, che recita: «nessuno può essere sottoposto a misura di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge».

2.2.2. Misure di sicurezza non detentive

Il soggetto che commette un reato per il quale sia prevista una pena inferiore a cinque anni, qualora seminfermo al momento del delitto, è assoggettabile alla misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata (art. 219, terzo comma, c.p.). Anche il malato di mente, già assoggetto alla misura di sicurezza del ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, può essere sottoposto al regime di LV. Questo avviene in caso di istanza di revoca anticipata della misura detentiva, denegando la revoca e decidendo la sua trasformazione in libertà vigilata, oppure, in caso di ricovero in corso, concedendo i benefici dell’articolo 53, comma 1, della Legge 26 luglio 1975, n. 354, la cosiddetta “licenza esperimento”, attuabile nei sei mesi prima della scadenza della misura di sicurezza dell’OPG, eseguita in REMS. Durante questo arco di tempo il paziente è sottoposto a libertà vigilata. Infine, la sentenza della Corte Costituzionale, 18 luglio 2003, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 c.p. (ricovero in OPG), nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale. Il pronunciamento della suprema corte rende possibile la diretta applicazione della libertà vigilata per l’individuo affetto da disturbo psichico autore di reato, in luogo dell’automatico ricovero in OPG.

L’art. 228 c.p. stabilisce che la durata minima della libertà vigilata non è inferiore a un anno e che il giudice impone all’individuo le prescrizioni idonee a evitare le occasioni di nuovi reati.

L’art. 232 c.p. stabilisce che l’infermo di mente può essere posto in libertà vigilata solo se affidato al genitore o a coloro che abbiano obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza ovvero a istituti di assistenza sociale. Se durante il periodo di libertà vigilata l’infermo di mente non si attiene alle prescrizioni impartite dal giudice o tale affidamento non sia ritenuto possibile od opportuno la libertà vigilata viene sostituita con la misura di sicurezza detentiva del ricovero in CCC, “da eseguirsi in REMS”.

In corso di LV il paziente autore di reato è affidato all’UEPE, che rappresenta interfaccia privilegiata della Magistratura di Sorveglianza, dovendo relazionare periodicamente e in occasione dell’udienza del riesame della pericolosità. Pertanto, l’équipe socio sanitaria che ha in carico il paziente deve tenere costanti rapporti con l’UEPE. Si deve tuttavia precisare che l’intervento dell’UEPE è riservato soltanto nei casi in cui il paziente sia assegnato alla LV in via definitiva. È infatti noto che le Ordinanze della Magistratura possono venire emesse durante il processo penale, in via provvisoria, di norma per mesi 6, rinnovabile fino alla sentenza definitiva, che decreta il passaggio della misura al Magistrato di Sorveglianza. I programmi assistenziali, terapeutici e riabilitativi devono integrare il costrutto giuridico della libertà vigilata terapeutica, quale insieme di processi multiprofessionali, individualizzati e coerenti, tendenti a riassumere i più moderni indirizzi della Psichiatria di Comunità, incentrati sulla recovery e sul protagonismo dei pazienti, per quanto governato dall’équipe sia all’interno che all’esterno della struttura comunitaria. Le ordinanze della Magistratura prevedono espressamente, ai sensi dell’art. 228 del c.p., il principio dell’affidamento «al responsabile della struttura». Le medesime ordinanze della Magistratura prevedono precisi obblighi di mezzi per la struttura stessa che assume in carico il paziente libero vigilato, tra i quali quelli di predisporre un progetto di cura e quello di realizzarlo, se e quando opportuno, anche all’esterno della struttura, mediante espressa prescrizione che impone accompagnamento da parte del personale sanitario e della riabilitazione, per tutto il tempo entro il quale il grado di stabilità clinica e di adesione al progetto da parte del paziente non ha raggiunto necessari e sufficienti livelli, anche misurabili con apposite scale tratte dalla letteratura specializzata, tali da potere richiedere e ottenere dal giudice la liberatoria di spostamento autonomo. La realizzazione dei contenuti terapeutico-riabilitativi, i quali devono essere scrupolosamente osservati dal paziente, rappresenta una sorta di obbligazione per l’équipe sociosanitaria, come richiamato nella Ordinanza del Magistrato, secondo la dicitura «il programma dovrà essere esercitato in modo tale da agevolare il riadattamento della persona alla vita sociale ai sensi degli artt. 228, comma 4 C.P. e 190, comma 3 del Decreto Legislativo n. 271 del 28 luglio 1989». L’équipe sociosanitaria, in collaborazione con l’UEPE, deve relazionare al Magistrato sull’andamento della Libertà Vigilata, divenendo, insieme con le Forze dell’Ordine che hanno il compito della sorveglianza formale sulla persona (allontanamenti e/o comportamenti non adeguati), la fonte informativa principale sull’effettivo raggiungimento degli obiettivi di salute mentale, come finalizzati alla possibile revoca del provvedimento.

Infine, in tema di esecuzione della libertà vigilata, questa può essere disposta al domicilio del paziente autore di reato. Tale possibilità, di solito, impegna direttamente il DSM-D nella conduzione del caso, diversamente dalla maggioranza dei casi nei quali la LV viene attivata in Comunità Terapeutiche private, in regime di accreditamento. A margine del capitolo sono riportati due facsimili di modalità di attivazione della misura territoriale, a seconda che il paziente sia in comunità oppure al domicilio (allegati 2 e 3). Tali schede sono parte integrante del Protocollo d’Intesa per l’Applicazione di un Modello Operativo di Superamento degli OPG (Legge 81/2014) nel Territorio Distretto di Corte d’Appello di Brescia, di cui al Decreto n. 9958 del 10 luglio 2018, a cura del Direttore Generale Welfare di Regione Lombardia.

2.2.3. Problemi di applicazione delle MdS,
Codice Penale e Codice di Procedura Penale

La normativa in materia di superamento degli OPG ha introdotto significative novità rispetto all’impianto che il codice penale e quello di procedura riservano alle misure di sicurezza, applicabili all’autore di reato con disturbi mentali. Tale recente legislazione che – si ripete – non ha cambiato le leggi penali sul tema, ha tuttavia fissato i principi di governo di questi istituti giuridici, prevedendo i criteri della residualità, eccezionalità, temporaneità e territorialità delle misure di sicurezza detentive, da eseguirsi in REMS.

A distanza di cinque anni dalla riforma restano problemi di applicazione delle disposizioni di legge. Il principio di territorialità viene talvolta eluso, sia quando le MdS sono applicate allo straniero, sia nei casi di italiani che, per svariati motivi, hanno patito un disagio socioeconomico così drammatico da avere perso nel tempo la residenza. L’assegnazione senza l’ancoraggio al principio di territorialità comporta l’estrema difficoltà di individuare un DSMD competente che si faccia carico di un percorso di dimissione. Molti stranieri senza fissa dimora e documenti di identità non sono riconosciuti dalle ambasciate dei paesi, supposti, di provenienza. Molti di loro sono destinatari di decreto di espulsione dal suolo italiano, ma la giurisdizione prevede comunque il giusto processo, talché l’ingresso in REMS diventa la soluzione migliore per tacitare le molte coscienze di magistrati, avvocati e periti.

I principi di residualità, eccezionalità e temporaneità sono a loro volta scarsamente applicati. Tali criteri sono previsti nella norma che recita «il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a far fronte alla sua pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale. Allo stesso modo provvede il magistrato di sorveglianza quando interviene ai sensi dell’articolo 679 del codice di procedura penale. Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali». La loro parziale o, in alcuni casi, totale non applicazione è – dispiace dirlo – il frutto del processo di giustapposizione tra la norma penale, non modificata, e la legge del Parlamento, che non possiede una sua intrinseca cogenza.

A distanza di cinque anni, nonostante la mancanza di dati nazionali aggiornati, l’esperienza sul campo di chi ha la direzione clinica delle otto REMS provvisorie della Lombardia45 autorizza a rappresentare un quadro all’interno del quale non possono chiamarsi fuori frange della magistratura, in buona compagnia con schiere di periti che esercitano la professione forense con aspetti di sconcertante aprioristica approssimazione. Leggendo numerosi elaborati peritali si osserva una scarsa sensibilità diagnostica. Il ruolo delle sostanze viene spesso invocato come trigger criminogenetico, sul versante del disturbo piuttosto che sul versante del rappresentare, stante il codice penale, un aggravante di colpevolezza. La semi-infermità non si nega a nessuno, specialmente quando il giudice chiama il perito rispetto a un caso che è più sociale che psichiatrico. Bisognerebbe forse avere il coraggio di riconoscere come – a fronte di istituti carcerari che hanno perso la vocazione trattamentale e rieducativa della pena e a fronte della mancanza di investimenti sul sistema delle misure alternative al carcere – la magistratura sembri sempre più incline ad applicare le MdS detentive in REMS, mentre una quota di soggetti dovrebbe finire in carcere o in misura alternativa.

Emerge oggi una crisi dei criteri di valutazione dell’imputabilità che inizia con i periti e termina con i giudici i quali, con l’eccezione della trattazione dei reati più gravi, faticano a sottoporre al vaglio del pensiero logico e controfattuale quanto proposto dai loro consulenti, preferendo pensare al dopo la sentenza, piuttosto che al merito della stessa.

Diverso invece il problema della valutazione della pericolosità sociale nella fase delle indagini e nella fase del procedimento. In questo caso il giudice deve prendere spesso atto di una scarsa, per non dire inesistente collaborazione tra il suo perito e il DSMD di residenza dell’investigato. Una quota sensibile di soggetti che fanno ingresso in REMS avrebbe potuto tranquillamente beneficiare di un percorso alternativo in libertà vigilata provvisoria, applicata già durante il procedimento. Invece, stante la Relazione al Parlamento 2019 del Garante Nazionale delle persone detenute46, circa il 40% dei pazienti in REMS risulta in applicazione della MdS provvisoria. Il dato risulta doppio rispetto all’anno di chiusura degli OPG (31 marzo 2015).

Infine, sempre in tema di accessi impropri nelle REMS, si deve anche citare il numero – crescente negli anni – di pazienti che falliscono la libertà vigilata, per i quali il Magistrato di Sorveglianza dispone nuovo ingresso in REMS, applicando gli artt. 231 e 232 c.p.

Mancano in Italia sistemi di rilevazione nazionali che rendano conto della prevalenza e incidenza annua dei casi sottoposti alla libertà vigilata. Mancano criteri di accreditamento specifici delle comunità terapeutiche che hanno in carico questi pazienti. Si registra una scarsa attenzione a procedure di accountability delle rette giornaliere in rapporto agli esiti e in relazione all’adozione delle migliori pratiche internazionali in tema di trattamento dei pazienti autori di reato. Non è dunque da stupirsi se una percentuale non trascurabile di pazienti vada incontro al fenomeno del revolving door che rappresenta un formidabile potenziamento dello stigma e dell’istituzionalizzazione giudiziaria del paziente autore di reato.

PARTE TERZA

3.1. Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA)

Nel perseguire l’obiettivo di fornire una definizione condivisa e operativa di PDTA, è stata effettuata un’analisi della principale letteratura e delle normative di riferimento. La prima parte descrive i requisiti minimi che devono necessariamente essere presenti, se si intende attuare un Percorso di cura integrato all’interno di una Azienda sanitaria regionale. Successivamente, si propone l’implementazione di un PDTA riferito agli autori di reato con disturbi mentali, all’esterno degli Istituti penitenziari. Il costante incremento di situazioni di fragilità sanitaria e sociale, l’aumento della cronicità e la sempre più frequente insorgenza di multi-patologie nel singolo paziente, impongono una riorganizzazione dell’assistenza sociosanitaria territoriale che – attraverso lo sviluppo di modelli organizzativi integrati – promuova attività di prevenzione e promozione della salute47.

In accordo con la Raccomandazione dell’Associazione Italiana per la Qualità dell’Assistenza Sanitaria e Sociale (AsIQuAS), l’integrazione dei diversi metodi di erogazione dell’assistenza, la continuità della stessa e la collaborazione entro e tra le istituzioni socio-sanitarie, sono prerequisiti per la soddisfazione dei bisogni di cura dei pazienti con problemi complessi48-50.

Al fine di superare la modalità frammentata che caratterizza molti servizi sanitari, il Piano nazionale cronicità riporta che occorre implementare le previsioni normative della Legge n.189/201251 e del Patto per la salute 2014-201652, riorganizzando le cure primarie e l’assistenza territoriale in modo da fornire ai cittadini un servizio nuovo ed efficace, capace di rispondere ai bisogni emergenti della società. Ogni Regione dovrebbe declinare le modalità organizzative più adeguate, secondo i propri strumenti di programmazione e secondo le specificità territoriali. Partendo da una visione di sanità orientata alla comunità, i programmi di Gestione Integrata pongono al centro dell’intero sistema un paziente informato ed educato ad assumere un ruolo attivo nella gestione della patologia da cui è affetto. In tali programmi, un’équipe multidisciplinare è preposta alla presa in carico dei pazienti, al coinvolgimento dei caregiver, all’adesione ai piani di cura, alla condivisione e all’utilizzo di linee guida per la pratica clinica.

La Gestione Integrata è volta a ottenere un miglioramento dello stato di salute e della qualità di vita del paziente, ottimizzando l’utilizzo di risorse umane ed economiche e si concretizza nei Percorsi assistenziali adatti alle potenzialità e ai limiti dei contesti locali53. Tale approccio è rappresentato dal modello Expanded Model Chronic Care54, che integra gli aspetti clinici a quelli di sanità pubblica (prevenzione primaria collettiva e attenzione ai determinanti di salute), in ottica di community oriented primary care, rivolgendo particolare attenzione sia all’empowerment del paziente, all’informazione, all’accessibilità e alla proattività, sia ai bisogni della comunità, alla partecipazione e all’equità55.

La EPA è un’associazione internazionale no-profit, costituita da un network di manager e ricercatori impegnati nello sviluppo, implementazione e valutazione dei PDTA56. Il PDTA è un intervento complesso mirato alla condivisione dei processi decisionali e dell’organizzazione dell’assistenza per un gruppo specifico di pazienti durante un periodo di tempo ben definito56. Il Percorso indica una sequenza predefinita, articolata e coordinata di prestazioni, erogate a livello ambulatoriale e/o di ricovero e/o territoriale, che prevede la partecipazione integrata di diversi specialisti e professionisti (oltre al paziente stesso), a livello ospedaliero e/o territoriale, allo scopo di realizzare la diagnosi e la terapia più adeguate per una specifica situazione patologica o anche l’assistenza sanitaria continua in particolari condizioni della vita57.

La metodologia dei PDTA, conosciuta con i termini anglosassoni coniati dalla National Library of Medicine – “clinical pathway” o “integrated care pathway” – è ampiamente utilizzata in tutto il mondo58-60, in quanto volta a incrementare l’efficacia e l’efficienza dell’approccio clinico a determinate patologie.

In Italia il PDTA può essere distinto, in base all’ambito di estensione, in PDTA ospedaliero, PDTA territoriale e Percorso Integrato di Cura (PIC)61,62, sia ospedaliero sia territoriale, orientato alla continuità, all’integrazione e alla completezza della presa in carico. Affinché il Percorso di cura del paziente con una specifica problematica clinica, contestualizzato nella realtà organizzativa di un’Azienda sanitaria, possa essere confrontato tra Aziende e Presidi sanitari che trattano la stessa patologia, la stesura del PDTA deve rispettare peculiari requisiti. Secondo l’EPA56, i PDTA devono:

esplicitare chiaramente gli obiettivi dell’assistenza basata sulla centralità del paziente, sulle evidenze scientifiche e sulle best practice (linee guida);

facilitare la comunicazione tra operatori sanitari, pazienti e caregiver;

coordinare i ruoli e le attività dei team multidisciplinari di assistenza;

includere la documentazione e la definizione delle modalità e dei criteri per il monitoraggio e la valutazione degli outcome;

identificare le risorse necessarie all’attuazione dei percorsi.

Nella prospettiva di attuazione della clinical governance63, strategia con cui le organizzazioni sanitarie si rendono responsabili del miglioramento continuo della qualità dei servizi e del raggiungimento-mantenimento di elevati standard assistenziali in termini di sicurezza, efficacia, appropriatezza, equità, coinvolgimento degli utenti ed efficienza64, la Fondazione GIMBE ha delineato 5 fasi salienti nella pianificazione e dello sviluppo di un PDTA:

definizione priorità;

costituzione del gruppo di lavoro;

mappatura del percorso;

elaborazione e stesura del Percorso Assistenziale;

disseminazione, implementazione, valutazione61.

Il promotore di un PDTA può corrispondere alla Direzione Generale d’Azienda, al Direttore di Dipartimento o di Struttura oppure può identificarsi in un gruppo di professionisti che promuovono un’iniziativa di MCQ – Miglioramento Continuo di Qualità.

In primo luogo, la problematica clinica di interesse si basa sull’analisi dei bisogni definita da criteri di priorità, quali l’impatto sulla salute del cittadino e della comunità di riferimento (prevalenza, incidenza e mortalità della patologia), la presenza di linee guida specifiche, la variabilità delle prestazioni clinico/assistenziali e l’impatto economico65.

Dopo aver analizzato i bisogni e indicato il livello di formalizzazione del PDTA (comunicazione interna o delibera), il promotore identifica lo staff di coordinamento che si assume la responsabilità complessiva del PDTA, in stretta collaborazione con le Direzioni Sanitarie di Presidio. Lo staff facilita l’avvio del progetto e della sua gestione, compresa la predisposizione di documenti e moduli, l’elaborazione dei dati, la tenuta del dossier di riferimento, la produzione dei report e la loro diffusione53,55,65. 

Tutti gli elementi costitutivi del percorso (originale del PDTA e registrazioni relative alla progettazione) devono essere raccolti in uno specifico dossier cartaceo o informatizzato. Inoltre, lo staff coordina il gruppo di lavoro responsabile dello sviluppo del PDTA, ovvero un gruppo multidisciplinare e multiprofessionale formato da operatori sanitari, ma anche amministrativi e/o esperti in organizzazione, competenti rispetto al processo di diagnosi, cura e assistenza della patologia prescelta. Lo staff e il gruppo di lavoro effettuano la ricognizione dell’esistente, che consiste nel raccogliere informazioni relative a come sono gestite le situazioni clinico organizzative del problema sanitario oggetto del PDTA. L’analisi dell’esistente può basarsi sulla documentazione dell’azienda e sulle risultanze di interviste mirate e focus group con gli operatori coinvolti nel processo di care. Tale analisi è fondamentale per il raffronto con le condizioni organizzative che saranno indicate dopo la realizzazione del percorso effettivo e per la misurazione degli indicatori di outcome53,55,65. Al fine di definire le migliori pratiche professionali/gestionali e di evidenziare un percorso ideale che serva da riferimento e confronto per valutare incongruenze e punti critici del percorso effettivo, lo staff di coordinamento e il gruppo di lavoro analizzano le fonti di evidenze in letteratura EBM/EBN e le linee guida relative al problema individuato (intese come «raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo sistematico, con lo scopo di assistere medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche»65,66, alle quali si fa riferimento per la valutazione di ogni prestazione.

La Mappatura del percorso è uno strumento per la ricostruzione macro e/o di dettaglio del processo assistenziale, per acquisire una visione efficace della gestione del processo, per analizzarlo e successivamente revisionarlo55. La mappatura del percorso di riferimento richiede la focalizzazione sul paziente, la definizione di obiettivi minimi ed essenziali e degli outcome attesi, nonché della successione temporo-spaziale delle azioni necessarie e realizzabili, da svolgere nel contesto di una determinata situazione organizzativa e di risorse55. Le azioni ritenute non necessarie o ridondanti, devono essere eliminate in accordo con l’obiettivo di ottenere il miglior risultato (efficacia), di utilizzare la miglior pratica clinica (appropriatezza) e di ottimizzare risorse e tempi (efficienza)53,55,65. I benefici derivanti dalla mappatura di un processo sono la comprensione dell’attuale percorso del paziente, l’identificazione delle aree di miglioramento (per es., fasi ridondanti, loop, eccesso di interfacce) e degli snodi decisionali (processi differenti da unificare)55. 

In base al confronto con le Evidenze si procede alla definizione di: 

macro-fasi del nuovo processo;

attività in funzione delle categorie dell’assistenza;

outcome atteso per ogni attività; 

outcome intermedio (definizione diagnostica, educazione malattia, preparazione all’intervento, stabilizzazione clinica, mobilizzazione precoce);

outcome finale (riduzione di mortalità, morbilità e disabilità, ripristino della capacità lavorativa);

organizzazione delle diverse prestazioni in intervalli di tempo ben definiti (minuti/ore/giornata/settimane/mesi) e per figura professionale ;

costruzione di una tabella operativa55.

Per la verifica del modello, occorre prevedere la compilazione di una check list, che identifica la presenza e il rispetto dei momenti fondamentali nella costruzione e applicazione. Oltre al percorso di riferimento, lo staff di coordinamento e il gruppo di lavoro definiscono i criteri di inclusione-esclusione dei pazienti oggetto del PDTA, i criteri di ingresso del paziente nel processo e di uscita, i luoghi in cui si svolge e le macro-attività previste55.

Durante la fase pilota, la valutazione dell’applicazione del PDTA consiste nell’identificazione delle aree di criticità (per es., l’impossibilità ad attuare o la necessità di inserire indicazioni o azioni diversamente da quanto descritto nel PDTA/PIC di riferimento) e la correzione in itinere delle azioni che non risultano congruenti con il raggiungimento degli obiettivi prefissati53,55,65.

La fase successiva è la più critica, in quanto consiste nell’attuazione del PDTA all’interno dell’azienda e presuppone la pianificazione di un processo di implementazione che tenga conto degli elementi di forza e di debolezza dell’organizzazione, con momenti di verifica e riesame. La valutazione del Percorso passa attraverso la definizione di criteri, indicatori e standard, che consentono di monitorare nel tempo gli andamenti e la rispondenza di quanto implementato al livello locale, ai modelli utilizzati e agli obiettivi posti dai livelli regionali e nazionali.

I criteri sono rivolti a valutare le risorse di cui dispone la struttura, la funzionalità organizzativa e professionale del processo rispetto all’aderenza alle linee guida di riferimento, gli effetti prodotti (output), il miglioramento della salute del paziente (outcome) e l’equilibrio economico (quante risorse economiche assorbe). Gli indicatori sono variabili ad alto contenuto informativo, che consentono il confronto nel tempo e tra realtà diverse, fornendo gli elementi necessari a orientare le decisioni rispetto a un obiettivo da raggiungere o da mantenere.

L’utilizzo degli indicatori prevede la descrizione del fenomeno che si intende misurare:

il valore osservato (valore numerico riferito alla misurazione);

il valore atteso (valore numerico riferito allo standard);

il tempo/periodo a cui si riferiscono la valutazione e i rispettivi indicatori.

In analogia ai summenzionati criteri, gli indicatori possono misurare le risorse utilizzabili all’interno della struttura (indicatori di struttura: operatori, dotazioni tecnologiche, posti letto), il funzionamento del PDTA/PIC (indicatori di processo) e l’appropriatezza rispetto alle linee guida, ovvero quanto un particolare intervento è efficace e indicato per la persona che lo riceve: l’appropriatezza clinica (per es., percentuale di prescrizione di una specifica classe di farmaci e l’appropriatezza organizzativa, come tempi di intervento e percentuale di ricoveri).

Gli indicatori di output misurano le prestazioni erogate, i volumi di produzione (per es., giornate di degenza) o la capacità produttiva come rapporto tra una dotazione strutturale (per es., posti letto, numero personale) e il volume di produzione.

Gli indicatori di esito misurano il raggiungimento di un determinato traguardo, per quanto riguarda l’evoluzione delle condizioni di salute del paziente e della collettività (outcome: decessi, disabilità); possono essere specificati sulla base di parametri clinici, fisiologici e biochimici, emozionali e cognitivi, psicosociali o anche essere relativi alla soddisfazione dell’utente.

La valutazione degli indicatori di costo può avvenire a livello globale, come costo delle risorse impiegate nell’erogazione del percorso in un periodo definito (risorse economiche impiegate/assorbite in un anno), a livello parziale, come costo di singole fasi del PDTA/PIC (parte ospedaliera, territoriale, ambulatoriale) o mediante il confronto tra tariffe e costi sostenuti.

Il processo decisionale comprende la valutazione dello scostamento tra il risultato dell’indicatore e lo standard o valore soglia, basato su valori riportati in letteratura, su dati forniti da organismi nazionali o internazionali (soglia istituzionale o normativa) o prestabilito sulla base delle situazioni locali (soglia interna). Lo standard può essere “ottimale”, valore non sempre perseguibile o “operativo”, valore soglia a cui effettivamente tendere nel contesto specifico. 

Il PDTA realizzato deve necessariamente essere diffuso dalla Struttura Aziendale che ha competenza specifica nel diffondere comunicazioni e informazioni (Ufficio Comunicazione e Qualità, Organizzazione e Sviluppo Risorse Umane, ecc.), mediante incontri e riunioni mirati a conferire importanza e visibilità al processo di cambiamento53,55,65. La Struttura Aziendale deve anche prevedere un costante monitoraggio sulle tematiche oggetto del percorso, in un’ottica di benchmarking, raffrontando nel tempo le conoscenze acquisite a livello di comunità scientifica nazionale e internazionale.

La revisione del PDTA può prevedere il modello di lavoro dell’AUDIT – «analisi critica e sistematica, all’interno del Sistema di Gestione per la Qualità (SGQ), delle procedure clinico/organizzative utilizzate per la diagnosi, il trattamento, l’uso delle risorse, gli outcome risultanti, la qualità di vita per i pazienti, volta a determinare se le attività svolte, la qualità dell’assistenza sanitaria ed i risultati ottenuti, sono in accordo con quanto pianificato e se quanto stabilito venga attuato efficacemente e mantenuto aggiornato»55,65. A un livello di base, l’AUDIT consiste in una serie di incontri fra operatori, finalizzati alla discussione della progettazione e revisione metodologica generale del percorso, gli indicatori attivati, l’analisi degli scostamenti e dei casi clinici (per es., i casi conclusi con esito inatteso o i casi con outcome insoddisfacente). L’AUDIT si concretizza attraverso una revisione strutturata, per mezzo della quale i professionisti esaminano la propria attività e i propri risultati in confronto a standard espliciti.

L’analisi della qualità dell’assistenza, educa a un atteggiamento di autovalutazione, facilita l’individuazione dei fattori di criticità, obbliga a misurare e allena a confrontare e interpretare i dati55,65.

I riferimenti normativi dei PDTA sono:

la legge finanziaria 1996, art.1, comma 28 «i medici conformano le proprie autonome decisioni tecniche a PDTA cooperando in tal modo al rispetto degli obiettivi di spesa»67;

il DL del 19 giugno 1999, n. 229: «Il PSN 1998-2000 indica le linee guida ed i relativi Percorsi diagnostici terapeutici allo scopo di favorire lo sviluppo di modalità sistematiche di revisione e valutazione della pratica clinica ed assistenziale e assicurare i LEA»68;

intesa tra Governo, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano del 10 luglio 2014, concernente il Patto per la salute per gli anni 2014-2016 (repertorio n. 82/CSR)52, sottolinea la necessità che il Ministero della salute «implementi un sistema adeguato di valutazione della qualità delle cure e dell’uniformità dell’assistenza sul territorio nazionale ai fini del monitoraggio costante dell’efficacia e dell’efficienza dei servizi, nonché degli adempimenti di cui all’articolo 27, comma 11 del decreto legislativo n. 68/2011»69;

il DL del 12 marzo 2019 “Nuovo sistema di garanzia per il monitoraggio dell’assistenza sanitaria”70 e il Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa per il triennio 2019-202171 a cura del Ministero della Salute;

l’aggiornamento del DL del 12 dicembre 2001 sul “Sistema di Garanzie per il monitoraggio dei livelli di assistenza: valutazione dei percorsi diagnostico terapeutico assistenziali” a cura della Direzione Generale della programmazione sanitaria72.

3.2 Prassi operative generali del PDTA in caso
di Misura di Sicurezza (MdS)

I soggetti destinatari di MdS sono tutti coloro cui viene applicata in via provvisoria o definitiva la misura del ricovero in REMS – detentiva – o di libertà vigilata, non detentiva.

La misura del ricovero in REMS si qualifica in base alla Legge 81/2014 come provvedimento volto alla cura e riabilitazione di pazienti psichiatrici autori di reato, assolti in via definitiva per incapacità di intendere e volere e riconosciuti socialmente pericolosi. La tipologia di misura assegnata al paziente è individuata a giudizio del giudice, dipendendo prevalentemente dalla gravità del reato commesso e dalla relazione peritale che deve verificare la sussistenza e l’attualità degli indicatori interni di pericolosità sociale.

Nell’iter giuridico si assiste di frequente al passaggio tra misure detentive di REMS a quelle di libertà vigilata, per progressiva attenuazione della pericolosità sociale; l’inverso in caso di mancato rispetto delle prescrizioni, dell’adesione al progetto terapeutico-riabilitativo, della commissione di altro reato o di reiterazione dello stesso.

Solo all’esito dell’emissione, anche provvisoria, di una misura di sicurezza, il Servizio sanitario aziendale è coinvolto al fine di intraprendere la presa in carico o, in base alle necessità assistenziali, la programmazione del PTI.

Le prassi operative in caso di emissione di misura di sicurezza si potranno diversificare sia in base al percorso giuridico previsto che sulla scorta delle indicazioni di massima presenti in perizia, quando acquisibile dai sanitari. Pertanto, il PDTA in caso di misure di sicurezza sarà strutturato su tre cardini principali e di peso diversificato: giuridico, clinico e riabilitativo.

La programmazione del percorso terapeutico, seppur indirizzato dai principi fondamentali delle linee-guida cliniche nazionali e internazionali per la specifica patologia, subirà inevitabilmente – almeno all’inizio del percorso di cura – l’influenza delle esigenze di giustizia e la necessità del rispetto delle prescrizioni della misura e delle indicazioni cliniche-diagnostiche del perito, in assenza di valida collaborazione e alleanza terapeutica del paziente. Quest’ultimo, nella maggior parte dei casi, è soggetto passivo del progetto, non riconoscendone il valore in correlazione al reato, non avendo spesso insight di malattia ed essendo il concetto di libertà vigilata con obbligo di cure un’entità giuridica di difficile esplicitazione e controversa applicazione.

3.3 PDTA in caso di Misura di Sicurezza
della REMS

3.3.1 Fase della presa in carico

La misura detentiva della REMS presuppone, per la sua applicazione, una procedura diversificata sia per la necessità di coinvolgimento del DAP, sia per l’essere subordinata alla disponibilità di posto letto in REMS.

La trasmissione dell’ordinanza da parte dell’autorità giuridica al DAP, primo passaggio imprescindibile, consente l’assegnazione del paziente alla REMS e da questa alla ASL e al DSM, territorialmente competenti, rispetto alla residenza storica della persona destinataria della misura.

In caso di soggetto senza fissa dimora, straniero o italiano, il DAP provvede all’assegnazione della REMS riferendosi all’ultima residenza o domicilio o all’ambito di competenza del Tribunale che ha disposto la misura di sicurezza.

In caso di immediata disponibilità di posto letto REMS, la REMS assegnataria – individuata dal DAP – fornirà disponibilità all’accoglienza al Tribunale che ha emesso l’ordinanza ovvero all’ufficio detentore del fascicolo in base all’iter giuridico e, conseguentemente, all’Ufficio Esecuzioni Penali (UEP), per l’autorizzazione all’accompagnamento mediante le Forze dell’Ordine.

In caso di mancata disponibilità di posto letto REMS, la REMS inserirà il paziente nella lista di attesa della Regione di origine o del proprio bacino di riferimento e provvederà a richiedere la presa in carico del paziente da parte del Servizio psichiatrico aziendale competente territorialmente nelle more della disponibilità all’accoglienza, con procedure similari alla misura di libertà vigilata per la redazione di un PTI.

Dopo l’ingresso del paziente nella REMS, avviene la presa in carico da parte del Servizio multi-specialistico e multi-professionale interno alla struttura in collaborazione con la ASL di competenza, che verrà convocata entro i primi 30 giorni di ricovero per la programmazione del PTI intramurario ed estensivo.

3.3.2 Fase della valutazione clinico-diagnostica

La strutturazione di un PTI in misura di REMS prevede l’inquadramento della fase del procedimento giuridico in corso (posizione giuridica provvisoria vs definitiva) associato alla valutazione dei bisogni clinici assistenziali del paziente, derivanti dalle caratteristiche del disturbo psichiatrico di cui è affetto e con lo scopo di identificare percorsi terapeutici personalizzati e rispondenti alle principali linee guida cliniche nazionali e internazionali.

Tale percorso sarà condotto dall’équipe interna alla REMS, composta – tendenzialmente – da uno psichiatra, uno psicologo, un operatore della riabilitazione psichiatrica e un assistente sociale, che si coordineranno con i servizi territoriali di origine del paziente. Tali attività, quando possibile, prevedono la partecipazione dei familiari o del/i caregiver principale/i (per es., amministratore di sostegno, tutore).

L’intervento dell’ASL di provenienza, coinvolta già nelle prime fasi di ricovero, garantirà il diritto del paziente alla continuità assistenziale, soprattutto nei casi di utenti già in carico, e la condivisione dei processi decisionali, nella prospettiva della progressiva attenuazione della misura giuridica nel minor tempo possibile.

La prima fase del ricovero dovrà prevedere l’inquadramento diagnostico psicopatologico, prescindendo dalle indicazioni peritali, lo studio del profilo personologico e un’anamnesi dettagliata – remota e prossima – internistica, psichiatrica e del percorso giuridico. Utile sarà anche l’accertamento di fattori confondenti l’inquadramento clinico come la sussistenza di psicopatia e/o di uso di sostanze.

Successivamente, dovrà essere integrata l’indagine delle criticità sociali esistenti in anamnesi e, specificatamente al momento dell’inizio del percorso di cura, la valutazione della complessità del reato e dei fattori di fragilità.

Il PTI, redatto a conclusione di questo inquadramento e sottoposto all’autorità giuridica entro 30 giorni, dovrà rispondere ai bisogni assistenziali identificati ed essere in coerenza alle linee guida cliniche nazionali e internazionali per gli aspetti diagnostico-terapeutici. La struttura del PTI dovrà indicare gli elementi a seguire (vedi Box).

3.3.3 Percorso di cura e continuità assistenziale

In coerenza con il PTI programmato, il paziente intraprenderà il percorso di cure farmacologiche, psicoterapiche e socio-riabilitative in REMS. Tutti gli interventi saranno finalizzati agli obiettivi previsti dal programma riabilitativo identificato e alla rielaborazione degli eventi correlati al reato commesso, così come da prescrizioni previste.

Durante il trattamento i Servizi psichiatrici del territorio di origine saranno deputati alla prosecuzione dei controlli clinici almeno trimestrali, cadenzati anche in riunioni di équipe con i sanitari curanti in REMS, garantendo la continuità della presa in carico e monitorando l’andamento clinico.




Si raccomanda specificamente, in questa fase intermedia, di intraprendere la rivalutazione in itinere dell’inquadramento diagnostico. La valutazione diagnostica all’inizio della presa in carico, essendo dipendente dal procedimento giuridico e dalla valutazione dell’ausiliario consulente tecnico di ufficio, frequentemente risente della necessità di rispettare i tempi del procedimento giuridico per l’inquadramento diagnostico; ciò la può rendere inevitabilmente imprecisa, limitata, puntiforme. La singola valutazione peritale descrive l’hic et nunc rispondendo al bisogno giuridico di attualizzazione della pericolosità sociale rispetto al quadro clinico-diagnostico complessivo.

Inoltre, durante il percorso di cura, la presa in carico assistenziale consente un rafforzamento e/o la creazione ex-novo dell’alleanza terapeutica necessaria a un maggiore coinvolgimento attivo del paziente, intercettandone anche criticità non emerse nella prima fase conoscitiva.

I servizi sociali della REMS e dell’ASL di appartenenza consentiranno e/o agevoleranno gli aggiornamenti rispetto a dinamiche relazionali familiari conflittuali, a necessità di figure di tutela giuridica e a situazioni di fragilità sociale. I servizi sociali del Comune di riferimento collaboreranno nel supportare il paziente nel riconoscimento di benefici economici o abitativi, utili in caso di riduzione della pericolosità sociale e di avvicinamento al territorio.

Nel corso dell’esecuzione della misura della REMS, il paziente sarà preso in carico anche dall’UEPE che svolge il compito di favorire il reinserimento sociale delle persone che hanno subito una condanna definitiva. L’assistente sociale dell’UEPE, in collaborazione con i Servizi sociali della REMS e dell’ASL di residenza, fornirà ai sanitari ulteriori elementi utili alla programmazione del PTI extra-murario e di uscita dalla REMS e dovrà inviare al Giudice relazioni cadenzate sull’andamento del progetto e sulla rete sociale di riferimento. Durante tale periodo, il monitoraggio del PTI e le riunioni di équipe saranno più ravvicinate, in particolare nell’occasione delle udienze di riesame.

3.3.4 Valutazione della performance del PTI e riesame della misura detentiva della REMS

Durante il periodo di ricovero in REMS vi è l’obbligo per i sanitari della stessa e per quelli dei Servizi del territorio di provenienza di fornire costante aggiornamento del PTI in corso: con cadenza mensile in caso di posizione giuridica provvisoria o trimestrale in tutti gli altri casi.

In caso di osservazione di miglioramento clinico, crescita della consapevolezza di malattia e del valore della misura, recupero di abilità e competenze personali, assenza di reiterazione del reato, attenuazione della pericolosità sociale nel monitoraggio degli indicatori interni è indicata la proposizione di un PTI che preveda l’uscita dalla REMS attraverso la revoca della misura di sicurezza detentiva.

Questa fisiologica evoluzione del PTI, principio fondante della norma giuridica che considera come extrema ratio la misura della REMS, deve prevedere la valutazione del cambio di livello assistenziale e l’identificazione del livello di cure più idoneo agli indici clinici, sociali e, soprattutto, prognostici. Pertanto, in coerenza con le azioni di cura del progetto intramurario, il Servizio territoriale di presa in carico potrà richiedere permessi di uscita sperimentali presso il luogo di cura, identificato per il graduale inserimento, o al domicilio, per il confronto necessario con l’esterno e la valutazione del grado di affidabilità del paziente al progetto proposto.

Successivamente alle fasi sperimentali descritte, il Servizio territoriale predisporrà un PTI di uscita dalla REMS e di contestuale dimissione, da sottoporre al Tribunale di competenza, in occasione delle udienze di riesame di pericolosità sociale. Nel corso delle prime fasi del processo giuridico, è opportuno descrivere al giudice competente il percorso di cure ed eventuali ridefinizioni diagnostiche emerse, al fine di una rivalutazione dell’iter processuale e dell’identificazione di ogni misura più idonea al quadro clinico.

In caso di revoca della misura di sicurezza della REMS, il paziente sarà preso in carico dal Servizio di Salute Mentale dipartimentale come soggetto libero.

In caso di attenuazione di misura della REMS in libertà vigilata, sarà seguito dal Servizio territoriale in coerenza con il PTI proposto (Tabella 2).




3.4 PDTA in caso di Misura di Sicurezza
non detentiva della Libertà Vigilata

3.4.1 Fase della presa in carico

La misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata è applicata per i soggetti affetti da disturbo mentale autori di reato, considerati con un grado di pericolosità sociale moderata e a seguito dell’emissione di ordinanza di riduzione della libertà oppure per revoca di una misura detentiva e/o dimissione dalla REMS, sulla base di un PTI presentato dai Servizi sanitari.

Il percorso di cura e la presa in carico dei pazienti in lista di attesa di posto letto disponibile in REMS è assimilabile a quello della libertà vigilata.

In caso di soggetto dimesso dalla REMS e già conosciuto al Servizio psichiatrico di competenza, la presa in carico sarà sostanzialmente rappresentata dalla partecipazione dell’équipe alla fase di trasferimento dalla struttura al nuovo luogo di cura e dall’attivazione di tutte le procedure burocratiche e assistenziali già previste nel PTI, garantendo l’adattamento dell’abituale assistenza sanitaria specialistica.

In caso di nuova ordinanza, in particolare nelle prime fasi dell’iter giuridico, sovente può accadere che l’emissione di un’ordinanza provvisoria non sia notificata al soggetto interessato, ma solo all’avvocato difensore (spesso nominato d’ufficio), rendendo quindi edotti della stessa solo i Servizi sanitari assegnatari del percorso di cura da attuarsi.

Per facilitare la presa in carico in questi casi e in tutti quelli in cui il paziente è sconosciuto ai Servizi, si provvederà a richiedere l’autorizzazione alla convocazione per visita specialistica con l’ausilio delle forze dell’ordine per la procedura di notifica. Al primo contatto, è utile prevedere la presenza di un familiare/caregiver e/o del tutore/amministratore di sostegno.

Tale procedura, talora farraginosa, consente la più facile gestione del processo conoscitivo iniziale da parte del paziente destinatario della misura di sicurezza e la definizione di ruoli e spazi diversificati rispetto alla tradizionale presa in carico psichiatrica volontaria.

L’individuazione del paziente deve avvenire mediante indagine sociale dei Servizi ASL utilizzando dati anagrafici e strumenti di registrazione nazionale o regionale dei soggetti in carico ai Dipartimenti di Salute Mentale.

La fase della presa in carico per un paziente destinatario di misura di sicurezza della REMS inserito in lista di attesa sarà analoga a quella descritta per le misure non detentive.

Dopo queste prime fasi avverrà la presa in carico del Servizio territoriale della ASL di appartenenza per la programmazione del PTI entro 30giorni.

3.4.2 Fase della valutazione clinico-diagnostica

La prima fase della presa in carico, così come avviene nelle misure detentive, prevede l’inquadramento dei bisogni sanitari in uno con le prescrizioni/obblighi dettagliati nell’ordinanza.

L’équipe specialistica prevede le fasi conoscitive iniziali a seconda del paziente in carico. I colloqui ambulatoriali devono tendere a fornire inquadramento clinico e diagnostico, identificazione dei bisogni assistenziali del paziente e ricostruzione dell’iter giuridico in corso, con lo scopo di identificare percorsi terapeutici personalizzati e rispondenti alle principali linee guida cliniche nazionali e internazionali.

Sarà integrata anche l’identificazione del profilo personologico, la ricostruzione anamnestica (remota e prossima), l’individuazione di fattori confondenti come l’uso di sostanze e la sussistenza di psicopatia, eventuali contatti precoci con NPIA, tutte informazioni integrative alle prime indicazioni fornite nella perizia di ufficio che influenza la tipologia di misura emessa.

Successivamente, dovrà essere approfondita la sussistenza di criticità di tipo sociale, la valutazione della complessità del reato e della consapevolezza dello stesso e della presenza della rete sociale.

Il coinvolgimento del caregiver, quando non persona offesa, risulta cruciale per l’identificazione delle criticità assistenziali e dei punti di forza della rete sociale e di debolezza dei precedenti progetti o approcci di cura.

Quando la rete sociale è assente, o coinvolta come denunciante o parte civile, risulta utile una maggiore inclusione dei Servizi del Comune di riferimento territoriale nell’assistenza al soggetto e nella produzione di ogni documentazione necessaria da sottoporre al Giudice Tutelare per la valutazione delle misure di sostegno.

Nei provvedimenti di misura di sicurezza della libertà vigilata con obbligo di permanenza in luogo di cura, così come avviene nei soggetti in lista di attesa REMS, l’équipe intraprende ricognizione del luogo sanitario, socio-sanitario o sociale, in relazione all’idoneità ai bisogni assistenziali individuati e da sottoporre all’autorità giuridica.

Il PTI, redatto a conclusione di questo inquadramento e sottoposto all’autorità giuridica entro 30 giorni, deve rispondere ai bisogni assistenziali identificati ed essere in coerenza alle linee guida specifiche della diagnosi rilevata.

Le macro-aree del PTI saranno equivalenti a quelle previste per le misure detentive e il programma potrà essere di tipo sanitario, socio-assistenziale o sociale.

L’opportunità di identificare un luogo di cura per i pazienti in lista di attesa per la REMS è correlato alle maggiori criticità cliniche e comportamentali riscontrate frequentemente in questi soggetti e alla necessità di un luogo di cura esterno al domicilio, insita nella misura detentiva.

In questi casi, il PTI è sottoposto all’autorità giudiziaria nelle more dell’esecuzione della misura della REMS emessa per l’autorizzazione provvisoria.

3.4.3 Percorso di cura e continuità assistenziale

Successivamente all’invio e all’autorizzazione – da parte del Tribunale – del progetto proposto, il paziente intraprenderà le cure e sarà accolto nella struttura identificata. Il trasferimento del paziente presso il luogo di cura autorizzato è concordato tra l’équipe referente e il Servizio sanitario detentore del progetto ed è effettuato dalle forze dell’ordine solo nel caso del paziente destinatario di misura detentiva inserito ovvero in lista di attesa REMS.

Nel caso di un PTI residenziale o semi-residenziale, l’équipe del Servizio psichiatrico lavora in stretta sinergia con i responsabili della struttura nel rispetto del programma redatto e con l’obiettivo di garantire omogeneità delle cure, il rispetto delle linee guida rispetto al disturbo diagnosticato e il raggiungimento delle finalità clinico-giuridiche individuate.

Le riunioni di équipe multidisciplinari sono a cadenza mensile/trimestrale o in base ai bisogni sanitari, con successivi aggiornamenti all’autorità giudiziaria.

Il monitoraggio in itinere del percorso, grazie alla strutturazione di una valida alleanza terapeutica, consente un coinvolgimento del paziente più informato sul valore della misura e degli obblighi correlati e lo rende più consapevole della necessità di assumere un ruolo attivo nel processo di crescita e nella rimodulazione del PTI.

Nel corso del processo terapeutico, così come in altri casi, è opportuna la rivalutazione diagnostica a esito degli iniziali miglioramenti clinico-riabilitativi, al fine di intercettare bisogni terapeutici o comorbilità misconosciute o sottovalutate all’inizio della presa in carico, frequentemente da ascriversi a individuazione di soggetti in fase di scompenso, molto spesso anche correlata a uso di sostanze.

Durante il percorso, i Servizi sociali acquisiscono maggiore priorità di intervento rispetto ai percorsi di cura dei pazienti accolti nelle REMS. All’interno del Programma devono essere istituiti incontri di équipe con l’obiettivo di rendere la partecipazione dei familiari, quando presenti, più attiva e finalizzata al rientro del soggetto nel territorio di origine e per interventi sociali volti al sostegno del paziente verso un percorso di autonomia individuale.

La sinergia tra tutti gli attori in campo, ognuno con la propria professionalità e ambito di azione, garantisce la rimodulazione del percorso di cura, calibrandolo sulle risorse disponibili strutturali e professionali in rispetto alle linee guida, tenendo conto degli elementi di forza e di debolezza dell’organizzazione sanitaria e sociale, con momenti di verifica e riesame.

3.4.4 Valutazione della performance del PTI e riesame della misura

Giunti al termine temporale previsto dal PTI o al soddisfacimento degli indici di performance in coerenza con le linee guida, l’équipe sanitaria provvede alla comunicazione degli esiti del Progetto al fine di una rivalutazione della persistenza della pericolosità sociale e/o della revoca della misura di sicurezza.

Nel caso di un paziente in lista di attesa, la relazione cadenzata all’autorità giudiziaria degli esiti del Progetto, arricchita degli obiettivi terapeutici riabilitativi e del timing previsto, consente anche la rivalutazione attualizzata della permanenza della pericolosità sociale e della persistente necessità di confermare la misura detentiva. Tali rivalutazioni giuridiche nell’ambito dell’iter processuale sono possibili anche nell’ottica di una rivalutazione della correttezza della misura scelta rispetto alla capacità di intendere e volere e della pericolosità sociale: i sanitari, occasionalmente nel corso di un percorso di cura, possono far fronte a modifiche della tipologia della misura di sicurezza o della revoca della stessa, con applicazione di misura detentiva e viceversa. In quest’ottica, nei casi di soggetti in posizione giuridica provvisoria e destinatari di misure di sicurezza REMS in attesa di applicazione, è stringente la necessità di fornire al Tribunale relazioni di approfondimento quanto più dettagliate possibile del percorso di cura, evidenziando gli elementi di forza e di debolezza del PTI. Inoltre, nel caso di soggetti che permangono in lista di attesa per l’ingresso in REMS per lungo

periodo, sarà presa in considerazione l’opportunità di descrivere i benefici dell’iter riabilitativo intrapreso, la crescita individuale del paziente e gli indici prognostici anche nella previsione di allontanamento ulteriore dal luogo di origine, per evitare l’interruzione del processo di cure in corso a favore dell’esigenza giuridica dell’esecuzione della misura di sicurezza detentiva.

Nel caso venga emessa ordinanza di revoca della misura di sicurezza della libertà vigilata, il paziente – divenuto libero – sarà seguito in continuità dal servizio territoriale competente per la presa in carico. In caso di revoca della misura di sicurezza della REMS senza applicazione della stessa con assegnazione di una non detentiva, il paziente continuerà il suo percorso di cure già intrapreso senza interruzioni.



A Functional Magnetic Resonance Imaging, tecnica in grado di restituire immagini relative ai cambiamenti di flusso del microcircolo cerebrale, correlato all’attivazione delle diverse aree anatomiche del cervello, da correlare all’esecuzione di compiti mentali, sulla base di istruzioni standardizzate. Questa tecnica si basa sulle proprietà magnetiche dell’emoglobina, che ha rilasciato l’ossigeno ai neuroni.

B Single Photon Emission Computed Tomography, tecnica in grado di restituire immagini relative ai cambiamenti di metabolismo cerebrale locale. Il tracciante 99mTc-HMPAO (così come il similare 99mTc-EC) è utilizzato per rilevare il metabolismo cerebrale regione per regione, discriminando le zone di attivazione, singole e associate, correlate all’esecuzione di compiti mentali, sulla base di istruzioni standardizzate.

C Voxel Based Morphometry, tecnica che consente di studiare la densità della materia grigia, indicativa della concentrazione di neuroni e della materia bianca, indicativa della consistenza e delle dimensioni assonali.


D La presunzione di pericolosità sociale era contenuta nell’art. 204 c.p, abrogato dal 1986. La stessa Legge n. 663/1986, art. 21, ha affidato alla Magistratura di Sorveglianza la competenza in tema di revisione della pericolosità sociale dei soggetti, cosiddetti “definitivi”.

E La Corte costituzionale, con sentenza 23 aprile 1974, n. 110, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 3, art. 207 (Revoca delle misure di sicurezza personali) che non consente la revoca delle misure di sicurezza prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge.


H La dicitura Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) viene introdotta dall’art. 62, Legge 26 luglio 1975, n. 354. Queste strutture avrebbero dovuto trattare esclusivamente i pazienti con infermità mentale totale e socialmente pericolosi (art. 88 c.p. e art. 222 c.p.). Vi era l’intendimento di creare “apposite sezione” per i soggetti che rispondono del reato, in quanto semi-infermi e socialmente pericolosi, per i quali è prevista nel c.p. l’assegnazione alla Casa di Cura e Custodia (art. 89 c.p. e art. 219 c.p.). Tali apposite sezioni, separate e distinte rispetto all’OPG, non sono mai state organizzate. Dunque, anche su questa base la legislazione di superamento dell’OPG ha previsto, tra l’altro, che le REMS ospitano indifferentemente soggetti sia totalmente infermi che soggetti parzialmente infermi


F Art. 133, comma 4 c.p.: “delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.

G Sentenza n. 186 del 2015.


I Art. 73, comma 1 c.p.p. - Provvedimenti cautelari.

1. In ogni caso in cui lo stato di mente dell’imputato appare tale da renderne necessaria la cura nell’ambito del servizio psichiatrico, il giudice informa con il mezzo più rapido l’autorità competente per l’adozione delle misure previste dalle leggi sul trattamento sanitario per malattie mentali.

2. Qualora vi sia pericolo nel ritardo, il giudice dispone anche di ufficio il ricovero provvisorio dell’imputato in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero. L’ordinanza perde in ogni caso efficacia nel momento in cui viene data esecuzione al provvedimento dell’autorità indicata nel comma 1.

3. Quando è stata o deve essere disposta la custodia cautelare dell’imputato, il giudice ordina che la misura sia eseguita nelle forme previste dall’articolo 286 (arresti cautelari in luogo di cura).

4. Nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero provvede all’informativa prevista dal comma 1 e, se ne ricorrono le condizioni, chiede al giudice il provvedimento di ricovero provvisorio previsto dal comma 2.

J Art. 286 c.p.p. – Custodia cautelare in luogo di cura

1. Se la persona da sottoporre a custodia cautelare si trova in stato di infermità di mente che ne esclude o ne diminuisce grandemente la capacità di intendere o di volere, il giudice, in luogo della custodia in carcere, può disporre il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i provvedimenti necessari per prevenire il pericolo di fuga. Il ricovero non può essere mantenuto quando risulta che l’imputato non è più infermo di mente.

2. Si applicano le disposizioni dell’articolo 285 commi 2 e 3.


K Art. 148 c.p. Infermità sopravvenuta al condannato - Se, prima dell’esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale o durante l’esecuzione, sopravviene al condannato una infermità psichica, il giudice, qualora ritenga che l’infermità sia tale da impedire l’esecuzione della pena, ordina che questa sia differita o sospesa e che il condannato sia ricoverato in un manicomio giudiziario, ovvero in una casa di cura e di custodia. Il giudice può disporre che il condannato, invece che in un manicomio giudiziario, sia ricoverato in un manicomio comune se la pena inflittagli sia inferiore a tre anni di reclusione o di arresto, e non si tratti di delinquente o contravventore abituale, o professionale, o di delinquente per tendenza.




APPENDICI

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