Clinica e psicoanalisi nella crisi della post-modernità: dalla liquidità a un nuovo puritanesimo neo-vittoriano?

SECONDO GIACOBBI1

1Scuola di Psicoterapia del Minotauro, Milano; Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica (SPP), Milano.

Riassunto. Alla liquidità della post-modernità sembra essersi sostituito nel mondo del mainstream un processo di risolidificazione all’insegna di valori forti che aspirano all’egemonia culturale. L’Autore parla di una sorta di “neo-puritanesimo vittoriano” antitetico al passato sul piano dei contenuti ideologici, ma ugualmente prescrittivo e omologante. Sul piano della pratica clinica l’effetto più vistoso sta nel tramonto del tema sessuale, laddove il clinico esita ad affrontarlo anche per il timore di apparire non conforme alla cultura “neo-vittoriana”.

Parole chiave. Politicamente corretto, post-modernità, pratica clinica, psicoanalisi, puritanesimo.

Clinical psychoanalysis and the crisis of postmodernity: from liquidity to a new neo-victorian puritanism?

Summary. The liquidity of postmodernity would appear to have been displaced, within the mainstream, by a process of re-solidification under the aegis of strong values seeking cultural hegemony. The Author designates this shift as a form of “neo-Victorian puritanism”, antithetical to the past in terms of ideological content yet equally prescriptive and homogenizing. At the level of clinical practice, its most salient effect manifests itself in the eclipse of sexuality as a theme, insofar as the clinician often refrains from engaging with it, not least out of concern for being perceived as deviating from the prevailing “neo-Victorian” cultural norm.

Key words. Clinical practice, postmodernity, psychoanalysis, puritanism, woke.

A partire dell’ultimo decennio del Novecento, la post-modernità ha celebrato i fasti di quella che sembrava destinata a essere una lunga fase della storia culturale dell’Occidente. Da qualche anno si registrano ormai segni inequivocabili del suo declino, cui fa seguito una nuova, anche se, come vedremo, non del tutto inedita, fase storico-culturale.

Ciò che ha significato, anche sul piano dell’immaginario collettivo, la post-modernità è ben noto. Da Lyotard1 a Bauman2 uno dei caratteri costitutivi della post-modernità è stato individuato principalmente, al di là dei profondi cambiamenti economici e geopolitici, nel tramonto delle grandi narrazioni ideologico-culturali, che hanno animato i processi identitari e i conflitti politico-sociali del Novecento. In primis, il crollo del marxismo come filosofia politica e come possibile modello di alternativa emancipativa alla organizzazione capitalistica della società. Ma, al di là del piano storico-politico, era l’idea stessa di “soggetto”, non solo politico ma anche filosofico ed esistenziale, a tracollare.

La modernità, a partire dall’ Illuminismo e dalle rivoluzioni borghesi dell’Ottocento, basava la propria forza di richiamo identitario proprio sull’idea di soggetto come cardine concettuale e valoriale capace di dare senso e prospettiva alle vite individuali. La post-modernità andava oltre la modernità, e alla solidità, rigida ma contenitiva, e alla cultura del soggetto umano sostituiva una “liquidità” che relativizzava qualsiasi valore di riferimento e qualsiasi prospettiva di realizzazione dell’individuo e del Sé sociale.

A partire però dal secondo decennio del nuovo secolo segnali di ri-solidificazione hanno cominciato a manifestarsi per poi divenire sempre più vistosi e pervasivi. Se da un lato i processi di disgregazione sociale e di regressione della soggettività hanno proceduto, soprattutto grazie al trionfo dei nuovi mezzi tecnologici di comunicazione e relazione, in maniera sempre più travolgente e inarrestabile, dall’altro lato sono nate nuove forme di ideologia dei valori, capaci di influenzare potentemente e riorganizzare la vita sociale e la condizione esistenziali dei soggetti umani3. Mi riferisco in particolare a due fenomeni specifici, l’uno inerente al piano politico-ideologico, l’altro al piano del costume e della concezione dell’uomo.

A partire, per esempio, dalla guerra in Ucraina, il confronto politico, soprattutto in Italia ma anche in molti altri Paesi europei, si è di nuovo, come e più che in passato, polarizzato in un modo dualisticamente oppositivo, che prevede solo due posizioni possibili, l’una “giusta” l’altra “sbagliata”, l’una “buona” l’altra “cattiva”, o di qui o di là. Tertium non datur, anzi qualsiasi tentativo di dialettizzare il confronto oppositivo e di individuare un possibile spazio “terzo” di riflessione veniva e viene denunciato come riprova che chi lo propone rivela, per ciò stesso, di stare dall’altra parte, quella del “nemico”. Scattava così, e scatta tuttora, quello che è stato definito il meccanismo della reductio ad Hitlerum, cioè del ricondurre qualsiasi posizione antagonistica e dialettica, rispetto a quella socialmente dominante, a un implicito pensiero totalitario e antidemocratico.

Come psicoanalisti non possiamo non cogliere in tale forma di processazione e di categorizzazione mentale l’implicito e inconscio richiamo a un funzionamento della mente di tipo schizo-paranoide. Tale funzione rappresenta, nel noto modello kleiniano, una “posizione” fisiologica e funzionale allo sviluppo della mente infantile. Per il bambino piccolo non ci sono che due diversi oggetti possibili, la madre buona (presente e accudente) e la madre cattiva (assente e frustrante). Nei confronti della prima non ci può essere che amore simbiotico e fusionale, nei confronti della seconda, odio e demonizzazione. Quando il bambino supera, se riesce a farlo, la posizione schizo-paranoide acquisendo consapevolezza che esiste un unico oggetto materno e che tale oggetto è dolorosamente e scandalosamente sia buono che cattivo, allora può accedere alla “posizione” depressiva, che è evolutiva, ma che comporta però non solo un’esperienza difficile di ricategorizzazione cognitiva, ma anche un’esperienza di dolore e disillusione. Si direbbe che l’attuale polarizzazione dicotomica degli schieramenti politico-culturali segnali una particolare difficoltà dell’attuale costume mentale ad accettare la posizione depressiva. In questo senso la fine della post-modernità sembra derivare anche dalla difficilmente sostenibile condizione di incertezza valoriale che la caratterizzava.

Per quanto concerne invece il piano del costume e della concezione dell’uomo e della vita umana, indubbiamente decisiva è stata l’affermazione della cultura dei diritti individuali, che ha conosciuto una declinazione fortemente ideologizzata in quella che è stata definita la cultura del “politicamente corretto” e “woke”. Anche in questo caso la contrapposizione è inderogabile: o vi si aderisce senza “se” o “ma” oppure significa che si è contro, contro il progresso e contro la sacralità dei diritti individuali, che solo l’individuo può, autonomamente e con arbitraria assertività, dichiarare e reclamare. Anche in questo caso la ricerca di una posizione “terza” e dialettica non è prevista e tanto meno riconosciuta come intellettualmente legittima. È una situazione che, in quanto clinici, ci riguarda direttamente. Tant’è che, nel nostro ambiente, sottrarci al richiamo perentorio del “politicamente corretto” risulta difficoltoso, perché può comportare, e di fatto comporta, stigmatizzazione e in alcuni casi una sorta di damnatio memoriae che tende a escludere dai dibattiti istituzionali e dalla prospettiva di riconoscimento da parte della letteratura accademica e “scientifica. Di qui, da parte di molti, fatte salve lodevoli eccezioni, una reazione di grande cautela o reticenza, una sorta di regime della “doppia verità” oppure l’omologazione intellettuale. Di qui il silenziamento di sempre più spazi di possibile espressione di un libero pensiero per quanto politicamente “scorretto” e l’affermarsi di veri e propri tabù culturali che arrivano a reclamare una regolarizzazione della semantica in una vera e propria “neo-lingua” di orwelliana memoria e in una vera e propria giuridicizzazione delle opinioni e delle verbalizzazioni.

Un solo esempio significativo è rappresentato dalla straordinaria estensione semantica del concetto di “omofobia”, in cui curiosamente viene coniugata una categoria della psicopatologia (fobia) con una categorizzazione di ordine sostanzialmente o potenzialmente giudiziaria (reato), che ripropone appunto una forma di “giuridizzazione della sessualità”4. In epoca vittoriana l’omosessualità era patologizzata come espressione di anormalità ed era anche, non dimentichiamolo, penalmente perseguita. La liberalizzazione e la normalizzazione della omosessualità nell’epoca contemporanea ha rappresentato non solo una conquista di libertà, ma anche un ribaltamento dei valori vittoriani e puritani. E tuttavia, sorprendentemente, è ricomparsa, ad esempio proprio nel concetto di “omofobia”, una forma di patologizzazione delle opinioni in materia di omosessualità, laddove una lettura non semplicemente normalizzante dell’orientamento omosessuale, lettura ovviamente legittimamente contestabile, viene però non solo contestata ma interpretata come una manifestazione di patologia.

Constatare una tale posizione socio-culturale (assolutamente inedita a meno di pensare a situazioni di regime che il Novecento ha ben conosciuto, naturalmente in forme violente e quindi incomparabili di penalizzazione del dissenso) ha indotto alcuni a parlare di “neo-puritanesimo”5 o di “neo-vittorianesimo”6. Credo sia legittimo parlare in questi termini, naturalmente con le debite distinzioni innanzitutto sul piano dei contenuti ideativi e valoriali. L’età vittoriana fu epoca di censure e di repressione sessuale, dove l’epoca attuale è invece caratterizzata da depatologizzazione e liberazione dei costumi sessuali. Una differenza fondamentale, che però sfuma laddove alla sacrosanta liberazione dei costumi si accompagna un intervento normativo e ideologico che tende a imporre una nuova ortodossia refrattaria a posizioni non omologate.

Qual è la ricaduta sul piano delle nostre vite professionali? Intanto la produzione teorica, certamente quella della psicologia clinica ma anche della stessa psicoanalisi, ne risulta impoverita, ma la stessa pratica clinica ne risente, ad esempio con il fenomeno, che tra clinici viene comunemente rilevato, di una marginalizzazione, timorosa e prudenziale, dei temi sessuali un tempo così rilevanti specie nella clinica psicoanalitica e oggi quasi latitanti7. La pratica psicoterapeutica risente moltissimo, come è noto, degli orientamenti ideologico-culturali di volta in volta dominanti. Su questo piano colpisce come la vita intellettuale e culturale di questi ultimi anni sia così vistosamente caratterizzata dall’affermarsi di una vera e propria regressione a forme di pensiero dualistico e dicotomico. È una forma di pensiero estranea e addirittura ostile a quella posizione “terza” e triangolare che la tradizione psicoanalitica rimanda alla centralità della vicenda edipica, che costringe gli uomini e le donne a confrontarsi con il “terzo” paterno, con l’accettazione della castrazione e del limite, della differenza tra i generi, tra i corpi sessuati e tra le generazioni. Ebbene, una simile atmosfera antropologico-culturale, oltre che intellettuale, di rifiuto del limite e delle differenze non ha una ricaduta clinica solo rispetto al tema della sessualità, oggi elusa o banalizzata. La pratica psicoterapeutica oggi deve fare i conti con pazienti molto diversi rispetto al passato (la nevrosi sembrerebbe quasi scomparsa, trionfano i disturbi borderline e narcisistici e si diffondono forme di psicosi “bianche” quasi invisibili allo stesso sguardo clinico perché non manifestano più declinazioni palesemente deliranti. A essere intaccati sono i processi di simbolizzazione, gli investimenti relazionali e transferali e gli stessi processi cognitivi. È un’epidemia apparentemente innocua che incontriamo quotidianamente per strada, dove la quasi totalità dei pedoni cammina con lo sguardo sprofondato nello smartphone e le cui menti sono continuamente sottratte al mondo circostante e alla realtà fisica. Vengono quindi colpiti quei preziosi processi e atti mentali che presuppongono il pensiero riflessivo e autoriflessivo e, come si suol dire, il pensiero “lento”.

Di questa situazione abbiamo riscontri anche nella pratica clinica, nella quale modalità di relazione e interazione fondamentali per un lavoro orientato in senso psicodinamico risultano molto più difficili rispetto al passato. I nostri pazienti, per lo più, reggono infatti con crescente difficoltà il silenzio, l’attesa, l’assenza di risposte immediate alle loro domande e alle loro richieste di aiuto “concreto”, ma anche lo sforzo di organizzare, attraverso e con il concorso attivo dello psicoterapeuta, uno spazio mentale e relazionale che si ponga in una prospettiva di durata, di attesa esplorativa e di elaborazione8. Si badi che non viene qui riproposto un ruolo psicoanalitico obsoleto e irrealisticamente propositivo di astratti modelli psicoterapeutici. Il setting, comunque necessariamente rigoroso e coerente, deve ovviamente tener conto con flessibilità della specificità concreta delle diverse situazioni cliniche. Quello che però appare ancora irrinunciabile è che lo psicoterapeuta non si rassegni a uscire dalla posizione “terza” e dialettica, perché questo significherebbe entrare invece in una situazione duale in cui la coppia terapeuta-paziente tende a riprodurre una coppia madre-bambino dove la madre (lo psicoterapeuta) “buona” se presente e gratificante, “cattiva” se assente e frustrante (ovviamente nel vissuto e nei processi di simbolizzazione del paziente). Ma se usciamo dallo studio clinico e riprendiamo a guardare al di “fuori” della società, quello che ci sembra di osservare e constatare è una sorta di situazione mentale collettiva in cui convivono, in un ibrido un po’ mostruoso, da un lato un forma-pensiero di tipo “schizo-paranoide”, cioè dualistica e antinomica, che quindi esclude il “terzo”; ma da un altro lato e contemporaneamente c’è nelle menti la costante presenza di un “terzo”, che però non è il terzo edipico, bensì l’Altro rispecchiante e narcisistico con cui fondersi e che invade la mente e la costringe a sottomettersi e confondersi con l’oggetto tecnologico e con i suoi fantasmi.

È chiaro che qui si pone davvero un drammatico problema e non solo di natura teorico-culturale, ma anche inerente appunto, lo ripeto ancora, la pratica terapeutica.

Pensiamoci e cerchiamo di rianimare un libero dibattito teorico e clinico al riguardo.

Bibliografia

1. Lyotard J. La condizione postmoderna: rapporto sul sapere. Milano: Feltrinelli, 1981.

2. Bauman Z. Modernità liquida. Bari: Laterza, 2002.

3. Han BC. Psicopolitica. Milano: nottetempo, 2014.

4. Gazzolo T. La giuridicizzazione del sesso. Torino: Rosemberg e Sellier, 2023.

5. Heinich N. Quello che la militanza fa alla ricerca. Milano: Mimesis, 2023.

6. Giacobbi S. Diritto, diritti, omofobia. Pratica Psicoterapeutica. Il mestiere dell’analista 2025.

7. Maschietto S (a cura di). La sessualità nella psicoanalisi contemporanea. Aspetti teorici e clinici. Roma: NeP Edizioni, 2024.

8. Magherini G. Chi ucciderà la psicoanalisi. Psicofarmaci e Internet all’assalto. Milano: Ponte alle Grazie, 1998.