La psicoterapia interpersonale: un modello di intervento
per il disturbo borderline di personalità

Interpersonal psychotherapy: a model of intervention
for borderline personality disorder

SILVIO BELLINO, PAOLA BOZZATELLO, ELISA DE GRANDI, FILIPPO BOGETTO
E-mail: silvio.bellino@unito.it
Centro per i Disturbi di Personalità, Clinica Psichiatrica 1, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Torino

RIASSUNTO. La psicoterapia interpersonale (IPT) è un modello psicoterapico proposto nel 1984 dallo psichiatra americano Gerald Klerman. È una psicoterapia limitata nel tempo (12-16 sedute) con una impostazione medica, basata cioè sulla formulazione e sulla comunicazione di una diagnosi. Partendo dall’assunto che il sintomo psichiatrico si sviluppa in un contesto interpersonale, agendo sul quale è possibile indurre la remissione della sintomatologia e prevenire le recidive, l’IPT si prefigge di risolvere la crisi relazionale in atto, migliorando la funzionalità sociale e alleviando i sintomi psichici. Inizialmente questo modello psicoterapico è stato indirizzato alla cura della depressione maggiore, non psicotica e non bipolare. Negli anni si è cercato di applicare questa tecnica, con gli opportuni adattamenti, anche ad altri disturbi psichiatrici, partendo dagli effetti che essi comportano sul funzionamento interpersonale. Tra i disturbi di Asse II, l’IPT ha trovato applicazione nel trattamento del disturbo borderline di personalità (DBP). La sua frequente comorbilità con i disturbi dell’umore e le problematiche relazionali caratteristiche della patologia borderline hanno condotto all’elaborazione di un modello di IPT adattato al DBP (IPT-BPD). Si tratta di un intervento di maggiore durata (34 sedute), specificamente indirizzato per affrontare la cronicità di questi pazienti, l’elevato rischio suicidario e autolesivo e la spiccata difficoltà di gestione delle relazioni, compresa quella terapeutica. Sebbene i risultati dei trial clinici condotti finora per valutare l’efficacia dell’IPT in pazienti con DBP siano molto promettenti, sono necessarie ulteriori indagini su campioni più ampi.

PAROLE CHIAVE: psicoterapia interpersonale, disturbo borderline di personalità, psicoterapia interpersonale adattata al disturbo borderline, area problematica interpersonale, terapia combinata.


summary. Interpersonal psychotherapy (IPT) was proposed in 1984 by Klerman and colleagues. It is a time-limited psychotherapy (12-16 sessions), diagnosis-focused, based on a medical model. Psychiatric symptoms develop in an interpersonal context. Acting on this context, it is possible to induce remission and prevent subsequent recurrences. IPT is aimed at the resolution of the interpersonal crisis, improving social functioning and psychiatric symptoms. At first, it was addressed to treat major depression, not psychotic or bipolar. Later IPT has been applied to a growing number of psychiatric disorders, because of their frequent and remarkable interpersonal dimension. However, specific adaptations of IPT have been required to consider the different clinical characteristics of these disorders. To date, among Axis II disorders, only borderline personality disorder (BPD) has been a target of IPT. The frequent comorbidity with mood disorders and the relational problems due to BPD core symptoms are the main reasons for the proposal of an adapted model of IPT: the IPT-BPD. This model has a longer duration (34 sessions), and is designed to deal with chronicity of BPD, poor therapeutic alliance and the high risk of suicide and self-harm of these patients. Although studies aimed to test the efficacy of IPT in borderline patients were performed with promising results, replication of findings in larger samples is required.

KEY WORDS: interpersonal psychotherapy, borderline personality disorder, interpersonal psychotherapy adapted for borderline personality disorder, interpersonal problem area, combined therapy.

Introduzione
In anni recenti nuovi tipi di psicoterapia con una durata limitata e prestabilita hanno ricevuto una crescente attenzione e si sono notevolmente diffusi nella pratica clinica, perché offrono la possibilità di trattare un ampio numero di soggetti, anche negli ambulatori dei servizi pubblici, e consentono di stabilire per ciascun modello di intervento le indicazioni più appropriate in relazione alla diagnosi e alle caratteristiche cliniche dei pazienti. Inoltre, è stata posta un’enfasi particolare sull’importanza di indicare con chiarezza le tecniche psicoterapiche e di garantire l’adesione del singolo terapeuta al modello di riferimento attraverso la compilazione di manuali che specificano il metodo da seguire ed espongono in dettaglio una serie di casi clinici esemplificativi. Un tipo di psicoterapia che corrisponde molto bene a queste caratteristiche è la psicoterapia interpersonale (IPT), che ha acquisito particolare rilevanza tra le psicoterapie cosiddette brevi in quanto è un modello orientato al trattamento di pazienti con specifiche diagnosi psichiatriche e perché pone al centro della terapia i problemi attuali del soggetto nel suo ambiente e nei suoi rapporti personali. Si tratta inoltre di una psicoterapia che ben si presta a essere integrata con altri tipi di trattamento, in particolare con i farmaci, favorendo così il superamento della storica contrapposizione tra terapia farmacologica e psicoterapia, a favore di un nuovo approccio più completo e integrato, in cui clinici con varie competenze collaborano per conseguire obiettivi comuni. L’IPT nasce negli anni ’80 del secolo scorso come una proposta dello psichiatra americano Gerald Klerman 1 per curare la depressione. L’idea fondamentale è che la depressione sia determinata sia da fattori biologici costituzionali, sia da difficoltà nella costruzione delle relazioni interpersonali. Poiché questi problemi nei rapporti interpersonali si riscontrano in misura significativa in molti altri disturbi psichiatrici, nel corso degli anni è stato possibile allargare progressivamente le indicazioni cliniche di questa terapia e trattare numerosi disturbi diversi dalla depressione. Tuttavia, le differenze fondamentali delle caratteristiche cliniche dei disturbi psichiatrici hanno reso necessario adattare in ogni caso la terapia interpersonale al nuovo tipo di pazienti trattati. L’IPT ha dunque trovato impiego, con risultati nel complesso incoraggianti, nel trattamento di numerose malattie psichiatriche: il disturbo bipolare, la distimia, la tossicodipendenza, la bulimia, la fobia sociale, gli attacchi di panico. Inoltre, sono state apportate delle modifiche al modello originario in funzione delle problematiche particolari che si riscontrano negli adolescenti, negli anziani, durante e dopo la gravidanza e anche nelle terapie di gruppo. 
Recentemente è stato proposto un adattamento della terapia interpersonale per trattare il disturbo borderline di personalità (DBP)2, un disturbo di personalità grave e di particolare complessità psicopatologica che ha stretti rapporti clinici con i disturbi dell’umore.
I CONCETTI DI PERSONALITÀ E DI DISTURBO DI PERSONALITÀ
Storicamente sono state proposte varie definizioni di personalità, sulla base di diversi riferimenti teorici. È quindi difficile stabilire in modo generale e condivisibile cosa si debba intendere per personalità.
Dal punto di vista etimologico il termine “personalità” richiama il greco “persona”, che nel teatro classico designava la maschera attraverso cui passava il suono della voce dell’attore.
Nel corso della storia il significato di questa parola ha subito ripetuti cambiamenti. All’inizio è stata utilizzata per indicare l’aspetto esteriore e le caratteristiche manifeste di un individuo. In un secondo tempo, il termine personalità è passato a contraddistinguere le caratteristiche “personali”, “riferite alla persona”, comprendendo così gli aspetti nascosti, non evidenti del modo di essere dell’individuo e quindi il suo nucleo più profondo e autentico 3,4. La definizione della personalità che si adotta attualmente in psichiatria fa riferimento a un insieme complesso e articolato di caratteristiche psicologiche profonde, che sono in gran parte inconsapevoli, sostanzialmente stabili e che si esprimono in ogni aspetto della vita psichica del soggetto5. Questo modo di rapportarsi alla realtà, di reagire agli eventi e di regolare la propria esistenza, anche se nel suo complesso si mantiene costante dalla fine dell’adolescenza, deve possedere delle buone capacità di plasmarsi sulle esigenze dell’ambiente sociale. Possedere un’ampia varietà di caratteristiche e di abilità personali da utilizzare, come anche riuscire ad adottare diversi ruoli e stili di comportamento, consente alla persona di conseguire i propri obiettivi esistenziali e di limitare la sofferenza di fronte alle avversità.
Quando queste capacità di adattamento all’ambiente vengono meno, il soggetto ha un modo di percepire la realtà, di pensare e di comportarsi molto rigido e inflessibile, che genera di conseguenza un grado elevato di malessere e di disadattamento.
I disturbi di personalità rappresentano quindi un gruppo di disturbi psichiatrici che possono essere molto gravi e invalidanti, anche perché tendono a durare, se non si interviene in modo efficace, per molti anni, anche per tutta la vita del paziente.
IL DBP
Non tutti i disturbi di personalità hanno la stessa rilevanza clinica. Alcuni, come il disturbo borderline, sono particolarmente gravi e difficili da trattare. Il DBP è un disturbo di frequente riscontro clinico, con sintomi complessi e molto variabili da un caso all’altro. Comporta una rilevante compromissione del funzionamento sociale e delle capacità lavorative e spesso si complica con comportamenti autolesionistici o suicidari (il tasso di suicidio raggiunge il 10%, una percentuale circa 50 volte superiore a quella stimata nella popolazione generale) 6.
Secondo le recenti ricerche epidemiologiche, il DBP ha una prevalenza nella popolazione generale che varia dal 2% al 5%7. Nel 75-80% dei casi i soggetti interessati sono donne, solitamente giovani adulte e senza differenze apprezzabili rispetto al gruppo etnico8. La frequenza del disturbo sale fino al 10% fra i pazienti degli ambulatori psichiatrici, fino al 20% fra quelli che vengono ricoverati e rappresenta il 30-60% di tutti i disturbi di personalità9.
Per quanto riguarda i sintomi, questi sono principalmente rappresentati da repentini cambiamenti di umore, instabilità e precarietà delle relazioni con gli altri, pronunciata e sregolata impulsività e difficoltà a organizzare in modo coerente i propri pensieri e i propri comportamenti. L’instabilità dell’umore, uno degli elementi chiave del disturbo, si manifesta con rapide e imprevedibili oscillazioni tra umore depresso ed euforia, tra intensa rabbia e mancanza di autostima. Talvolta, emozioni contrastanti vengono provate contemporaneamente dal paziente, gli procurano confusione e disagio e si ripercuotono pesantemente sulla famiglia e sulle persone vicine. Queste tempeste emotive spesso sono scatenate da difficoltà nei rapporti con gli altri che sono oggettivamente di modesta entità, come un rifiuto, una critica o una semplice disattenzione. La reazione emotiva delle persone che sono affette da DBP è più immediata, intensa e prolungata rispetto a quella degli altri individui. Inoltre, i pazienti borderline rispondono alle sollecitazioni ambientali comportandosi in modo impulsivo, poco riflessivo e senza valutare le conseguenze delle loro azioni. La mancanza di controllo dell’impulsività si esprime in diverse situazioni: litigi violenti, abuso di droghe, crisi di abbuffate, tendenza alla promiscuità sessuale, al gioco d’azzardo e a spese sconsiderate.
Le relazioni interpersonali sono spesso tumultuose, molto coinvolgenti, ma instabili e caotiche con bruschi passaggi da periodi di esagerata idealizzazione a momenti opposti di radicale svalutazione dell’altro. In altre parole, i rapporti di solito incominciano con una fase dominata dall’idea che l’altro (il partner, un amico, un familiare) sia una persona estremamente positiva, completamente e costantemente protettiva, affidabile, disponibile e buona. È sufficiente una disattenzione, un errore o un qualsiasi gesto che il paziente interpreti come ostile o frustrante perché l’altro diventi immediatamente un personaggio negativo, infido, disonesto e malevolo. In molti casi le due immagini, quella “buona” e quella “cattiva”, sono presenti contemporaneamente nella mente del paziente borderline, provocando ulteriore confusione e smarrimento. In alcune occasioni, gli altri individui sono sentiti come nemici da cui difendersi o giudici severi pronti a condannare. Tale percezione incide drammaticamente sull’autostima del paziente, che finisce per sentirsi per la maggior parte del tempo sbagliato e fuori posto. Espressioni come “non valgo nulla”, “sono inconsistente”, “ho solo difetti” sono frequenti e sono riconducibili in parte alla convinzione di essere in errore e in parte al sentimento di essere vuoto e senza scopi nella vita.
In qualche caso, di fronte a condizioni di stress e di forte affaticamento emotivo, i pazienti borderline possono presentare dei sintomi più gravi, che assomigliano o per qualche tempo assumono le caratteristiche dei sintomi psicotici. Il soggetto si convince che gli altri vogliano fargli del male, si sente estraniato dalla realtà, vive percezioni alterate della realtà esterna e del proprio corpo. Anche queste crisi sono un elemento che indica la notevole gravità e variabilità clinica di questa patologia.
La difficoltà a riflettere sulle proprie esperienze, sui propri stati d’animo e sui propri rapporti affettivi, la vulnerabilità del soggetto alle situazioni stressanti e alle sollecitazioni emotive, l’incapacità di definire e mantenere nel tempo impegni di studio e lavoro, le tormentate relazioni sociali e personali possono condurre alla perdita del ruolo sociale, a un progressivo isolamento e all’emarginazione del paziente. Si tratta di persone che, pur avendo spesso buone facoltà intellettive, non riescono a realizzare i propri progetti e vanno incontro a ripetuti fallimenti.
Alle manifestazioni tipiche del DBP si associano spesso quelle di altre malattie psichiatriche, come le fobie, il disturbo di panico10, la bulimia9 e l’abuso di droghe e alcol11. I disturbi psichiatrici che più frequentemente si riscontrano in associazione con il DBP sono i disturbi dell’umore, fra cui i disturbi bipolari che hanno ricevuto particolare attenzione per alcune importanti analogie del quadro clinico. La ragione di questa frequente sovrapposizione è tuttora controversa, anche se di grande interesse per gli psichiatri. Alcuni autori ritengono che la patologia affettiva e quella borderline siano basati su una comune alterazione biologica che si esprime con differenti manifestazioni cliniche 12,13, mentre altri sostengono che le due patologie siano semplicemente sovrapposte in molti pazienti, perché la presenza di una favorisce lo sviluppo dell’altra senza che ci sia un’origine comune14. Il paziente con DBP si presenta spesso negli ambulatori del medico di medicina generale riferendo alterazioni dell’umore e chiedendo aiuto per recuperare le proprie energie e capacità. È essenziale dunque prestare attenzione alla storia di vita del paziente e non limitarsi all’osservazione dei sintomi attuali. Infatti, i pazienti borderline con disturbi affettivi presentano caratteristiche peculiari e abbastanza riconoscibili: l’esordio dei sintomi in età giovanile, una spiccata tendenza all’irritabilità e alla disforia, accessi di rabbia correlati a sollecitazioni emotive di poco conto, frequenti condotte autolesionistiche, una grave compromissione del funzionamento sociale e delle capacità lavorative con conseguente necessità di continuo sostegno e incessanti attenzioni da parte dei familiari.
MODELLI DI TRATTAMENTO PER IL DBP
I pazienti affetti dal DBP molto spesso si adattano con difficoltà sia ai trattamenti farmacologici, sia a quelli psicoterapici. È molto impegnativo per il terapeuta riuscire a costruire una relazione stabile, di fiducia e collaborazione con i pazienti borderline, che presentano come abbiamo visto gravi difficoltà relazionali.
Il modello di terapia al momento supportato da maggiori evidenze di efficacia è quello che combina gli interventi farmacoterapici con quelli psicoterapici15,16. La farmacoterapia è indirizzata al trattamento dei cluster di sintomi principali, quali le alterazioni del controllo dell’impulsività, le oscillazioni dell’umore e i sintomi che riproducono in modo attenuato quelli delle psicosi (ideazione persecutoria, illusioni, stati di coscienza dissociativi) e può avvalersi di farmaci stabilizzatori dell’umore (come l’acido valproico), antipsicotici di seconda generazione (come l’olanzapina e l’aripiprazolo) e antidepressivi (come gli SSRI, soprattutto nei casi di comorbilità con la depressione)15-18.
Per quanto riguarda il trattamento psicoterapico, la psicoterapia psicodinamica è stata a lungo considerata uno degli interventi più indicati nel trattamento di pazienti con DBP, anche se questo tipo di approccio si presta, per le sue caratteristiche, per la lunga durata e per il notevole dispendio di risorse personali ed economiche, al trattamento di un numero limitato di pazienti con valida motivazione al cambiamento e buone capacità di introspezione. La maggior parte dei pazienti affetti da DBP, caratterizzati da una profonda instabilità, non riescono ad affrontare questo tipo di terapia, che presuppone l’adesione a regole molto precise e piuttosto rigide e ha un’impostazione tecnica che sottopone il paziente a un elevato grado di sollecitazione emotiva e di frustrazione.
Negli ultimi decenni è stata sottolineata l’importanza di una chiara spiegazione delle tecniche psicoterapiche e della sistematizzazione manualistica delle diverse modalità di intervento che consente di testarne l’efficacia in studi clinici controllati19-21. Tra i numerosi modelli di psicoterapia individuale valutati per il trattamento del DBP, quello più ampiamente studiato è rappresentato dalla terapia dialettico-comportamentale (DBT).
La DBT è un modello psicoterapico di derivazione cognitivo-comportamentale sviluppato da Marsha Linehan nel 1993, come trattamento specificamente rivolto a pazienti borderline con comportamento autolesivo e/o suicidario. L’intervento è dunque focalizzato sul trattamento dei comportamenti disadattivi autodistruttivi considerati come espressione della disregolazione delle emozioni. Studi clinici randomizzati controllati sull’efficacia della DBT nei pazienti con DBP riportano una riduzione dell’ideazione suicidaria, dei comportamenti autolesivi, della frequenza di ospedalizzazione e dei sintomi ansioso-depressivi, mentre i risultati riguardanti il miglioramento degli accessi di rabbia e dei comportamenti violenti non sono univoci 22-30. Come abbiamo sottolineato, la DBT esplica i suoi effetti soprattutto sulle condotte autolesive e parasuicidarie. Altri elementi nucleari della patologia borderline, come le disfunzioni che caratterizzano l’impostazione delle relazioni interpersonali, richiedono di essere trattati con altri modelli di intervento. Se si considera che l’IPT è mirata fin dalla sua impostazione originale sui problemi nelle relazioni interpersonali, si comprende la ragione che ha indotto autori come il newyorchese Markowitz 31 ad adattare questo modello al trattamento di pazienti borderline. Le gravi difficoltà che il paziente borderline incontra nella costruzione dei rapporti con i familiari, i colleghi di lavoro, gli amici, rappresentano un bersaglio appropriato per una psicoterapia che ha l’obiettivo di promuovere il miglioramento dei pazienti attraverso la revisione dei modelli che questi adottano per gestire i loro rapporti.
LA PSICOTERAPIA INTERPERSONALE ADATTATA AL PAZIENTE CON DBP
L’IPT è una psicoterapia che si basa nella sua versione originaria su un manuale scritto da Klerman et al. nel 19841. È stata inizialmente proposta per curare i pazienti affetti da depressione, con una durata limitata e prestabilita di 16 settimane. L’IPT pone in primo piano le relazioni interpersonali attuali del paziente, pur riconoscendo il ruolo di fattori genetici, biologici e di personalità nel determinare la genesi degli episodi depressivi. La teoria alla sua base prende spunto dal pensiero di alcuni autori neofreudiani americani come Harry Stack Sullivan32, secondo cui le malattie mentali si sviluppano in rapporto agli effetti del contesto relazionale interpersonale e sociale, e sulla base della teoria dell’attaccamento di John Bowlby33,34, che ritiene che le modalità delle relazioni precoci tra madre e bambino diano origine a modelli di relazione più o meno sicuri e organizzati. L’IPT mette in relazione l’esordio e le recidive della depressione con gli eventi interpersonali problematici che hanno coinvolto recentemente il paziente, orientando l’intervento sull’individuazione di un’area problematica interpersonale (lutto, transizione di ruolo, contrasto interpersonale, deficit interpersonale). L’obiettivo iniziale della terapia è la riduzione dei sintomi depressivi, ma lo scopo più generale è quello di migliorare la qualità delle relazioni interpersonali e il funzionamento sociale del paziente.
Abbiamo visto che il DBP ha stretti legami e alcune analogie con la depressione. Inoltre, alcuni dei sintomi che caratterizzano questo disturbo derivano in parte significativa da problemi interpersonali. Sono parse due buone ragioni per cercare di applicare questa terapia, che nella depressione ha dato risultati eccellenti, anche ai pazienti borderline, in genere in abbinamento alle terapie farmacologiche.
Gli autori, che si sono occupati di adattare il modello originario dell’IPT alle caratteristiche cliniche e alle esigenze peculiari dei pazienti borderline, hanno prima di tutto dovuto formulare una definizione del disturbo utile per questa psicoterapia. Il DBP è quindi definito come un disturbo cronico dell’umore in stretto rapporto con la depressione, ma caratterizzato da ricorrenti episodi di rabbia incontrollata e manifestazioni di intensa impulsività. A causa della complessità clinica del disturbo e della difficoltà di instaurare un’alleanza terapeutica con questi pazienti, si è reso necessario estendere la durata del trattamento rispetto al modello tradizionale fino a 8-9 mesi e apportare alcune modifiche alle tecniche di intervento per controllare i momenti di crisi e garantire una maggiore collaborazione da parte del paziente.
Nell’IPT adattata al DBP31 il trattamento è suddiviso in due fasi. La prima fase dura 16 settimane e comprende 18 sedute. Gli obiettivi nelle sedute iniziali sono quelli di stabilire l’alleanza terapeutica, di controllare le condotte impulsive e autolesionistiche e di promuovere un miglioramento iniziale dei sintomi. Se il paziente completa questa prima fase in modo soddisfacente e rispetta in misura sufficiente le regole della terapia, prosegue con altre 16 sedute settimanali, il cui obiettivo è il consolidamento dei risultati iniziali, il rafforzamento dell’alleanza terapeutica e lo sviluppo di relazioni interpersonali più stabili e adeguate. Nel corso della terapia il paziente può ricorrere, se è necessario, a una telefonata settimanale con il terapeuta, allo scopo di gestire i momenti di crisi e di prevenire l’interruzione prematura della psicoterapia. Grande importanza ha poi in tutte le terapie limitate nel tempo la fase conclusiva, che viene dedicata ad affrontare la separazione del paziente dal terapeuta e a favorire l’acquisizione di un grado più alto di autonomia.
GLI STUDI DI EFFICACIA
La rassegna critica dei dati provenienti dalla letteratura è stata condotta attraverso una ricerca sulla banca dati di PubMed della US National Library of Medicine. Le parole chiave utilizzate per la ricerca bibliografica comprendono i termini “interpersonal psychotherapy” AND “borderline personality disorder”. Sono state prese in considerazione revisioni sistematiche della letteratura e articoli di ricerca pubblicati tra il 1994 e il 2013. Ogni fonte è stata analizzata per la sua rilevanza nell’ambito dell’IPT adattata al trattamento del DBP.
Gli studi che hanno valutato l’efficacia dell’IPT nel DBP sono promettenti, anche se ulteriori ricerche sono essenziali per confermare i risultati raggiunti.
Il primo tentativo di adattamento dell’IPT al DBP risale al 1994, quando Angus e Gillies35, pur mantenendo il format intensivo e la breve durata, hanno aggiunto alle aree problematiche tradizionali quella relativa all’immagine di sé. Questi Autori ritenevano infatti che il nucleo dei deficit relazionali dei pazienti borderline dovesse essere ricercato non solo nell’instabilità affettiva, ma anche in un’immagine di sé labile e mutevole. Hanno dunque avviato un trial esplorativo randomizzato su 24 pazienti assegnati in alternativa all’IPT (12 sedute a frequenza settimanale per 3 mesi) o alla Relationship Management Therapy, ma hanno dovuto abbandonare lo studio a causa dell’elevato tasso di drop-out (75%). Successivamente, Markowitz et al. 2 hanno pubblicato i dati di uno studio pilota condotto su 8 pazienti borderline con comorbilità per disturbi dell’umore e altri disturbi di Asse II, trattati per 32 settimane con IPT adattata al paziente borderline (IPT-BPD). Dei 5 pazienti che hanno terminato lo studio, nessuno rispondeva più ai criteri diagnostici per il DBP. Questi soggetti mostravano significativi miglioramenti della sintomatologia globale, dei sintomi depressivi e del funzionamento sociale.
Il nostro gruppo di lavoro ha condotto più recentemente uno studio controllato, con l’obiettivo di applicare l’IPT-BPD a un gruppo di pazienti borderline privi di comorbilità di Asse I e II. Sono stati reclutati 55 pazienti ambulatoriali, afferenti al nostro Centro per i disturbi di personalità, che sono stati assegnati con criterio random a due tipi di trattamento: 1) l’IPT-BPD in associazione alla terapia antidepressiva con fluoxetina (20-40 mg/die); 2) la farmacoterapia singola con fluoxetina (20-40 mg/die). Dopo un periodo di trattamento di 32 settimane, entrambi i trattamenti si sono dimostrati efficaci, non presentando differenze significative per quanto riguarda la percentuale di risposta e il grado di miglioramento della sintomatologia globale. La terapia combinata è risultata però maggiormente efficace nel miglioramento della sintomatologia ansiosa, della percezione soggettiva della qualità di vita in termini di funzionalità psicologica e sociale, di sintomi caratteristici del DBP, quali relazioni interpersonali, impulsività e instabilità affettiva 36.
Al fine di individuare modalità di intervento sempre più mirate e specifiche per questa popolazione di pazienti, ci siamo proposti di valutare i fattori predittivi di risposta alla terapia combinata con IPT-BPD e fluoxetina (20-40 mg/die) in un gruppo di pazienti borderline senza comorbilità di Asse I37. Lo studio, condotto su 41 pazienti ambulatoriali per un periodo di 32 settimane, ha rilevato che la risposta alla terapia combinata con IPT-BPD è in relazione significativa e indipendente con la gravità dei sintomi specifici del DBP e con il grado di funzionamento socio-relazionale. Il primo dato è in accordo con i dati di letteratura, in quanto una maggiore gravità della psicopatologia borderline è risultata un fattore predittivo positivo anche per altri modelli di psicoterapia appositamente formulati per il DBP 38,39. Possiamo quindi concludere che l’IPT-BPD, come altre psicoterapie, svolge un’azione relativamente specifica nell’ambito del trattamento combinato, in quanto sono i sintomi caratteristici della patologia borderline, non i sintomi in generale, né quelli ansioso-depressivi, a condizionare positivamente la risposta al trattamento. Il secondo risultato della nostra indagine indica che la presenza al basale di un funzionamento socio-relazionale più adeguato risulta particolarmente importante per l’esito di una psicoterapia focalizzata sul rimodellamento dei rapporti interpersonali. Questo aspetto è stato meno studiato e risulta ancora controverso nei trial che hanno valutato i fattori predittivi di risposta agli interventi psicoterapici dedicati al DBP 26,38,40-43.
CONCLUSIONE
In conclusione, i nostri dati suggeriscono che l’IPT-BPD proposta da Markowitz può rappresentare un efficace modello di intervento, capace di rispondere alla crescente richiesta di trattamenti psicoterapici manualizzati e di breve durata. Ulteriori studi dovranno essere adeguatamente progettati per confrontare i diversi trattamenti psicoterapici, per indagare gli effetti differenziali della combinazione dell’IPT con diverse classi di farmaci in confronto ai trattamenti singoli e per stimare l’efficacia dell’approccio interpersonale a lungo termine mediante valutazioni di follow-up. L’approfondimento delle indagini sui fattori predittivi di risposta all’IPT e ad altri modelli di terapia consentiranno, inoltre, di predisporre progetti terapeutici maggiormente individualizzati e mirati alle caratteristiche distintive dei diversi quadri clinici.
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