Sulla psichiatrizzazione e imprevedibilità del comportamento violento sulla persona


The psychiatrization and unpredictability of interpersonal violent behavior


ALESSANDRA M.A. NIVOLI1*, PAOLO MILIA1, CRISTIANO DEPALMAS1, GIANCARLO NIVOLI1,
MASSIMO BIONDI
2, Giulia Taras1, LILIANA LORETTU1

*E-mail: anivoli@uniss.it


1Clinica Psichiatrica, Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Sperimentali, Università degli studi di Sassari, AOU-Sassari

2Dipartimento di Neuroscienze Umane, Sapienza Università di Roma


RIASSUNTO. Il rapporto tra malattia mentale e comportamento violento è un fenomeno complesso. La letteratura scientifica indica che la presenza di una malattia mentale, anche severa, non è sufficiente, da sola, per prevedere né motivare un comportamento violento, il quale sembra essere maggiormente associato ad altre variabili intermedie. Il fenomeno della psichiatrizzazione del comportamento violento può essere definito, da un punto di vista psichiatrico-forense, come l’attribuzione pregiudiziale ed errata alla malattia mentale di fattore causale in relazione al comportamento violento. Questo fenomeno comporta conseguenze nella pratica clinica psichiatrica, ma anche a livello della stigmatizzazione sociale, della gestione delle risorse logistiche, organizzative ed economiche, e infine a livello del sistema giudiziario. Nel presente scritto saranno analizzate alcune criticità cliniche legate alla psichiatrizzazione del comportamento violento, tra cui la necessità di differenziare l’eziologia clinica e la causalità giuridica, la prevedibilità ed evitabilità, i fattori clinici protettivi e quelli di rischio, i limiti della diagnosi categoriale psichiatrica, la necessità di informazioni specifiche vittimologiche, le criticità della farmacoterapia. Saranno inoltre analizzate alcune criticità forensi, tra cui gli errori di metodologia clinica e forense [la psichiatrizzazione del sintomo, la contaminazione pregiudiziale, il mascheramento della diagnosi (diagnostic overshadowing), la causalizzazione giuridica dei fattori protettivi e di rischio], l’utilizzo della diagnosi categoriale in ambito forense, la psichiatrizzazione di esperienza umane non patologiche, la criminalizzazione del soggetto con disturbo psichico. In conclusione, si evidenzia come principio psichiatrico, sia clinico che forense, che un soggetto può anche avere un disturbo psichico, anche grave, ma tale disturbo non necessariamente si trova in relazione causale con il comportamento violento. La mancanza di una relazione casuale implicitamente rende difficile, se non impossibile, a seconda dei casi, la prevedibilità del comportamento violento, sia nella popolazione generale sia negli individui con patologie psichiatriche.

PAROLE CHIAVE: comportamento violento, disturbo psichiatrico, psichiatrizzazione del comportamento violento.


SUMMARY. The relationship between mental illness and violent behavior is a complex phenomenon. Scientific literature indicates that the presence of a mental disorder, even severe, is not sufficient, alone, to predict or motivate violent behavior, which seems to be more associated with other intermediate variables. The phenomenon of psychiatrization of violent behavior can be defined, from a psychiatric-forensic point of view, as the prejudicial and erroneous attribution to mental illness as a causal factor in relation to violent behavior. This phenomenon has consequences in psychiatric clinical practice, but also at the level of social stigmatization, management of organizational and economic resources, and the judicial system. In this paper, clinical criticalities related to the psychiatrization of violent behavior will be analyzed, including the need to differentiate clinical etiology and legal causality, predictability and avoidability, protective clinical factors and clinical risk factors, the limits of categorical psychiatric diagnosis, the need for specific victimological information, the criticalities of pharmacotherapy. Some forensic criticalities will also be analyzed, including errors in clinical and forensic methodology (psychiatrization of the symptom, prejudicial contamination, diagnostic overshadowing, legal causalization of protective and risk factors, the use of categorical diagnosis in the forensic field, the psychiatrization of non-pathological human experiences, the criminalization of the subject with mental disorder). In conclusion, it is highlighted that an individual can have a psychic disorder, even severe, but this disorder is not necessarily in a causal relationship with violent behavior. The lack of a causal relationship makes predictability of violent behavior difficult, even impossible depending on the case, both in the general population and in individuals with psychiatric disorders.

KEY WORDS: violent behavior, psychiatric disorder, psychiatrization of violent behavior.


INTRODUZIONE

Il rapporto tra malattia mentale e comportamento violento è un fenomeno complesso, oggetto di numerosi e continui approfondimenti scientifici che hanno fornito fino a oggi risultati contrastanti. Gli studi epidemiologici sulla popolazione generale indicano che, negli Stati Uniti, solo il 3-5% dei crimini è attuato da individui affetti da una patologia mentale1-5. Gli studi su campioni di pazienti psichiatrici si sono focalizzati preferenzialmente sulla schizofrenia e sui disturbi psicotici. Tenendo conto dei loro limiti metodologici e dell’eterogeneità degli studi, le meta-analisi indicano che la malattia mentale conferisce un modesto aumento del rischio di comportamento violento (da 2 a 4 volte)6, ma l’interpretazione dei risultati deve tener conto di due fattori fondamentali. Il primo consiste nel fatto che il rischio maggiore di attuare un comportamento violento nei pazienti psichiatrici è attribuibile a variabili intermedie, tra cui l’abuso di sostanze  e/o alcol, fattori ambientali stressanti, una storia passata di comportamento criminale, una storia di abusi subiti durante l’infanzia o specifici tratti di personalità, che hanno dimostrato avere un peso maggiore rispetto al disturbo mentale7-12. Fazel et al.11 dimostrarono infatti che l’associazione tra la presenza di schizofrenia e crimini violenti era minima rispetto ai controlli (1.2 OR versus 1.3), a meno che non vi fosse la comorbilità con disturbi da uso di sostanze, così come i tassi di recidiva nei casi di omicidio. Il secondo punto di riflessione rimanda all’evidenza che la maggior parte dei pazienti psichiatrici non presenta un comportamento violento: una meta-analisi sugli omicidi contro estranei ha evidenziato un tasso di 1 omicidio su 140.000 individui con diagnosi di schizofrenia13-15 e alcuni studi indicano al contrario che i pazienti affetti da psicosi sono più frequentemente vittime di comportamento violento da parte di terzi16. È possibile affermare quindi che la presenza di una malattia mentale, anche severa, non è sufficiente, da sola, per prevedere o motivare un comportamento violento, il quale sembra essere maggiormente associato ad altre variabili. Alcuni autori inoltre enfatizzano il ruolo di fattori legati alla criminogenetica (precedenti penali, storia passata di violenza, detenzioni giovanili, storia di abuso fisico, ecc.) rispetto alla presenza di una patologia mentale, quale fattore capace di predisporre un individuo al comportamento violento17,18. La letteratura scientifica che ha investigato le differenze tra coloro che compiono un atto aggressivo estremo, come un omicidio, e coloro che non lo compiono, non ha fornito evidenze rilevanti o significative. De Lisi et al.19, esaminando 1354 giovani criminali hanno evidenziato più somiglianze che differenze tra gli omicidi e i non omicidi e che, a un’analisi di regressione logistica inserendo i fattori di rischio più significativi, soltanto due elementi potevano distinguere i due gruppi di criminali (coloro che avevano compiuto un omicidio comparati con individui antisociali che però non avevano mai compiuto un omicidio): un basso quoziente intellettivo e una grave esposizione life-time alla violenza. Gli autori, pur sottolineando che a livello individuale esistono dei fattori di rischio significativi, hanno concluso per una imprevedibilità a priori del comportamento violento in caso di omicidio compiuto da giovani adulti. Sono state identificate varie ragioni per cui i dati scientifici circa la relazione tra malattia mentale e comportamento violento siano attualmente inconcludenti. Prima di tutto per dimostrare una correlazione tra la malattia mentale e un comportamento violento è necessario dimostrare che il disturbo psichiatrico fosse presente già prima o almeno durante l’agito aggressivo, ma la maggior parte degli studi si avvalgono di disegni retrospettivi (pazienti con comportamento violento in passato che presentano una diagnosi psichiatrica). In secondo luogo, gli studi longitudinali si sono focalizzati su pazienti psichiatrici, residenziali o in comunità, ma non hanno implicato campioni rappresentativi della popolazione generale e, pur valutando la presenza di diversi fattori di rischio per la violenza nei pazienti psichiatrici, tuttavia non hanno definito quale fosse il ruolo della malattia mentale come fattore indipendente che potesse predisporre a un comportamento violento. Infine, gli studi spesso implicano, all’interno della categoria “comportamento aggressivo”, differenti agiti violenti o criminali senza un’adeguata distinzione (per es., violenza interpersonale, violenza legata all’uso di sostanze, violenza attraverso l’uso di armi, ecc.).

Se si valuta il comportamento aggressivo come dimensione psicopatologica, le evidenze scientifiche identificano che tale dimensione deve essere letta come un fenomeno “trasversale”, presente cioè all’interno di varie categorie diagnostiche cliniche, come la schizofrenia, i disturbi dell’umore, ma anche non cliniche (per es., abuso di sostanze e/o alcol, psicopatia, ecc.)20.

Per ultimo l’omicidio, inteso come atto aggressivo estremo, è un fenomeno relativamente raro da un punto di vista epidemiologico per poter facilitare lo studio delle caratteristiche su campioni significativi e quindi per poter generalizzare i risultati. I dati dello studio National Epidemiologic Survey in Alcohol and Related Conditions7 indicano che, a un’analisi multivariata, la malattia mentale da sola non è in grado di predire, a livello statistico, il comportamento aggressivo futuro, ma è correlato ad altri fattori che aumentano il rischio di violenza: fattori anamnestici (violenza passata, detenzione giovanile, abuso fisico, familiarità per atti criminali), clinici (abuso di sostanze), disposizionali (età, genere, provenienza), contestuali (recente divorzio, mancanza di occupazione lavorativa, vittimizzazione).

«Da un punto di vista antropologico e storico, è possibile affermare che vi siano evidenze di aggressività collettiva tuttora presenti nel mondo attuale: guerre tra popoli, i genocidi delle minoranze etniche e/o culturali, i campi di sterminio, le pratiche di tortura, i sacrifici umani per motivi religiosi, le esecuzioni di dissidenti politici nei regimi totalitari, la denutrizione letale favorita in modo volontario e colposo, l’inquinamento mortifero di aziende commerciali per motivi economici. Durante la prima guerra mondiale circa 10 milioni di persone furono uccise e 17 milioni subirono gravi danni con esiti invalidanti permanenti21». Durante la seconda guerra mondiale non meno di 60 milioni di persone furono uccise (da 22,4 a 25,5 milioni di morti tra i militari e da 37,6 a 54,6 milioni di morti tra i civili)22. Si tratta di veri e propri omicidi di massa istituzionalizzati che, accanto ai milioni di invalidi e di sofferenti colpiti nella propria integrità fisica e psichica, paiono non arrestare la loro marcia di crudeltà ed efferatezza nelle storia dell’umanità. «The History of mankind is, among others things, a history of wars»23. Oltre ai sopracitati omicidi di massa istituzionalizzati sono presenti, nell’ombra del non manifesto, milioni di omicidi psicologici, più nascosti all’immediatezza della comprensione, più dissimulati nel tempo, ma non per questo meno crudeli ed efferati. Questi omicidi psicologici possono verificarsi nella quotidianità dei rapporti umani. Nelle relazioni di coppia patologiche, per esempio, si possono riscontrare dinamiche sofisticate caratterizzate da: continua svalorizzazione delle buone qualità dell’altro, delegittimazione dai ruoli gratificanti e indispensabili all’identificazione, cronici fraintendimenti delle intenzioni, indifferenza alle esigenze esistenziali di base, continua mortificazione dei desideri, tentativi di annullare l’identità sociale, alterazione e nullificazione delle identità gratificanti di riconoscimento personale, induzione di processi di colpa, autopunizione e autodistruzione di progetti di realizzazione personale, distruzione della salute psichica dell’altro rendendolo “folle” attraverso la manipolazione perversa, i doppi messaggi senza uscita, la disumanizzazione, la reificazione, l’imprevedibilità comportamentale, le comunicazioni interrotte, le affermazioni non elaborabili, la creazione di deserti affettivi, l’inoculazione di disastrose incongruenze affettive, le irruzioni croniche di ambiguità perturbanti, le tribolanti dissociazioni tra parole, affetti e comportamenti, ecc.24,25. «Passare in rassegna la storia della violenza significa rimanere spesso senza parole di fronte alla crudeltà… ed essere travolti dall’ira, dal disgusto e da una tristezza sconfinata»23. L’immaginario collettivo si difende da questi sentimenti di ira, disgusto e tristezza sconfinata, creando una distanza da tale distruttività presente nell’animo umano. Uno dei meccanismi di difesa risiede nell’attivazione dei cosiddetti “meccanismi psicologici di difesa”26. Di fronte a una situazione di stimolo psicologico classica come quando ci si confronta con un comportamento violento sulla persona (CVP), per esempio un omicidio che solleva una forte emotività perché crudele ed efferato e di cui non comprendiamo nell’immediatezza una chiara motivazione, i meccanismi psicologici di difesa si attivano nel modo più manifesto e il commento della maggior parte delle persone è: «… per compiere una azione così efferata e crudele senza una chiara motivazione non si può che essere dei malati di mente…».

IL PROCESSO DI PSICHIATRIZZAZIONE
DEL COMPORTAMENTO VIOLENTO

Il fenomeno della psichiatrizzazione del comportamento violento può essere definito, da un punto di vista psichiatrico-forense, come l’attribuzione alla malattia mentale del ruolo di fattore causale per il comportamento violento. Tale attribuzione, pregiudiziale ed errata, conseguenza di un legame semplicistico e riduttivo tra una diagnosi psichiatrica categoriale e il comportamento violento, non è rispettosa della multideterminatezza eziologica del comportamento violento e della pluralità di fattori che possono scatenare, slatentizzare, precipitare tale comportamento. Questo processo di psichiatrizzazione del comportamento violento, che non si limita solo alla ricerca della causa, ma si estende anche ad altre dinamiche che lo caratterizzano (“tutti i violenti sono malati di mente, il comportamento violento è una malattia che si può curare, lo psichiatra è responsabile dell’esito della cura”, ecc.), altera e nega, fino a nullificarle, le attuali conoscenze scientifiche cliniche e forensi in tema di comportamento violento25. Il fenomeno della psichiatrizzazione del comportamento violento trascina con sé effetti significativi non solo nella pratica clinica psichiatrica, ma anche a livello della stigmatizzazione sociale, della gestione delle risorse logistiche, organizzative ed economiche, e infine a livello del sistema giudiziario.

Il processo di psichiatrizzazione del comportamento violento presenta le seguenti criticità cliniche: eziologia clinica e causalità giuridica; prevedibilità ed evitabilità; fattori clinici protettivi e fattori clinici di rischio; limiti della diagnosi categoriale psichiatrica; informazioni specifiche vittimologiche; criticità della farmacoterapia; errori di metodologia clinica e forense; l’utilizzo della diagnosi categoriale in ambito forense; la psichiatrizzazione di esperienze umane non patologiche; criminalizzazione del soggetto con disturbo psichico.

Eziologia clinica e causalità giuridica

Il comportamento violento è un evento a eziologia bio-psico-sociale multideterminata, a diagnosi multiassiale e a intervento di prevenzione e trattamento multistrategico. Il problema della causalità giuridica nel diritto penale differisce dal concetto di eziologia clinica in ambito medico, psichiatrico e anche criminologico. In ambito giuridico ciò che interessa non è tanto la miriade di cause cliniche alla base di un evento complesso come il disturbo psichico, piuttosto il cosiddetto “fattore causale giuridicamente rilevante”, ovvero il fattore causale che, rispetto ad altri, assume rilevanza giuridica. La causalità giuridica si basa su elementi differenti da quelli dell’eziologia clinica, che sono: elaborazioni dottrinali (teoria condizionalistica, teoria della sussunzione sotto legge, ecc.); presenza di concause (preesistenti, simultanee, sopravvenute); presenza di concause sufficienti, non sufficienti, occasioni; compatibilità scientifica; differenza tra il possibile e l’altamente probabile; le più recenti evidenze cliniche condivise. Quindi il comportamento violento è evento a causalità giuridica di pertinenza e di competenza non esclusiva e non prioritaria della disciplina psichiatrica28-30. Per esempio, la presenza di uno stile di vita criminale risulta essere un elemento chiave nella comprensione del comportamento violento, che prescinde dalla presenza di una patologia psichiatrica. L’analisi dello stile di vita dell’individuo permette di stabilire una egosintonia o egodistonia nello stile di vita usuale con il comportamento violento ed evitare indebite confusioni tra eziologia clinica e causalità giuridica. Anche le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità31 evidenziano come l’eziologia clinica del comportamento violento debba essere interpretata attraverso un modello “ecologico” che tenga in considerazione fattori a livello individuale, relazionale, comunitario e socio-ambientale, e non esclusivamente di tipo psichiatrico. Diversi autori sottolineano come, dal punto di vista clinico, l’eziologia del comportamento violento non possa essere ascrivibile alla patologia psichiatrica non solo nella popolazione generale, ma anche in pazienti con un disturbo psichiatrico11,31,32.

Prevedibilità ed evitabilità

La prevedibilità del comportamento violento è la pietra miliare della valutazione e della gestione di tale comportamento. Tuttavia risulta essere una sfida per i clinici e i ricercatori a causa dell’eterogeneità delle presentazioni e dei contesti clinici. Il rischio clinico del comportamento violento può variare rapidamente nel tempo per quantità e qualità e non esistono metodologie obiettive, cliniche, attuariali o miste, per una sicura previsione del comportamento violento nel singolo caso clinico. Il comportamento violento può quindi rispondere ai criteri forensi dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità. Nel caso concreto di imprevedibilità e di inevitabilità, non può essere contemplata alcuna rimproverabilità giuridica allo psichiatra anche se l’autore è un soggetto con disturbo psichico25 esclusivamente formulata sull’esito degli eventi (obbligo di cure e non di risultati). Le linee guida NICE30 affermano che non vi siano strumenti di valutazione che possano essere di ausilio significativo nel prevedere un comportamento violento: la maggior parte degli strumenti di valutazione del rischio di violenza non sono disegnati per essere degli strumenti di rapida applicazione e valutano una dimensione – l’aggressività – che è un fenomeno complesso in cui numerosi fattori di rischio possono essere associati in maniera differente. Un ulteriore limite all’utilizzo degli strumenti di valutazione è rappresentato dalle loro proprietà statistiche intrinseche: il rischio di fornire dei falsi positivi (prevedere un comportamento violento quando in realtà non accadrà potrebbe portare a interventi di restrizioni non necessari per quel paziente) e falsi negativi (quando lo strumento non identifica un rischio di violenza quando in realtà è presente, e potrebbe determinare serie conseguenze sia sui pazienti sia sui terzi). Le stesse linee guida suggeriscono che il giudizio clinico, che tenga conto di un insieme di variabili complesse, deve guidare l’algoritmo decisionale nella prevedibilità o meno del comportamento violento.

Fattori clinici protettivi e fattori clinici di rischio

Il comportamento violento è da valutare clinicamente in relazione al rapporto tra i fattori clinici protettivi e i fattori clinici di rischio contestualizzati nel caso specifico. Questi fattori sono numerosi28,34,35 e differenti a seconda delle linee guida e degli studi. Tra i fattori di rischio, per esempio, sono stati descritti fattori socio-demografici, anamnestico-familiari, fattori legati all’abuso di sostanze e alcol, fattori clinici legati al disturbo mentale, fattori legati al trattamento, fattori circostanziali, ecc.; è necessario sottolineare che i fattori di rischio e di protezione nell’ambito del comportamento violento hanno valore statistico, cioè possono essere generalizzati alla popolazione in studio ma, a livello del singolo caso clinico, non hanno validità psichiatrico-forense. Non hanno inoltre valore causale diretto, da soli o associati, nel singolo caso clinico: vi possono essere numerosi fattori protettivi e il soggetto mette in atto un comportamento violento e vi possono essere numerosi fattori di rischio e il soggetto non mette in atto un comportamento violento25. I fattori di rischio e di protezione devono essere valutati tenendo conto delle loro criticità e della contestualizzazione nel caso specifico, nella loro attualità (cioè in relazione all’esame psichiatrico del paziente che ha messo in atto l’agito violento in quel momento), concretezza (il rischio non deve essere teorico o possibile, ma deve esserci una concreta evidenza di probabilità e prevedibilità), e contestualizzazione (esame dei fattori di rischio e protezione in quel paziente in quella specifica circostanza).

Limiti della diagnosi categoriale psichiatrica

Nel caso in cui venga formulata una diagnosi psichiatrica categoriale, con riferimento per esempio al Manuale Statistico e Diagnostico per i Disturbi mentali36 in relazione al comportamento violento, è necessario specificare che esistono delle criticità cliniche. La prima criticità sarebbe l’iper-semplificazione del disturbo psichico. Come si evince dalla sezione iniziale del DSM-5, la verifica dei sintomi elencati nei criteri diagnostici non è sufficiente per porre diagnosi di disturbo mentale, ma il loro uso deve essere quello di orientare la diagnosi, e deve essere completato dal giudizio clinico, e la caratterizzazione di ciascun paziente deve comprendere un’accurata storia clinica e una valutazione dei fattori sociali, psicologici, biologici. La seconda criticità sarebbe la psichiatrizzazione del comportamento normale. In effetti, da un punto di vista clinico, le condizioni che si identificano come “disturbi mentali” non sono fenomeni del tipo “tutto o nulla” ma condizioni che si sviluppano attraverso un continuum di gravita dalla cosiddetta “normalità” alla “patologia”. La definizione che il DSM-5 fornisce di disturbo mentale non è di grande ausilio: «Un disturbo mentale è una sindrome caratterizzata da un’alterazione significativa della sfera cognitiva, della regolazione delle emozioni del comportamento di un individuo, che riflette una disfunzione nei processi psicologici, biologici o evolutivi che sottendono il funzionamento mentale. I disturbi mentali sono solitamente associati a un livello significativo di disagio o di disabilità in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti». Il tentativo di delimitare un confine tra patologia e normalità è stato affrontato già dal DSM-II, e confermate poi nel DSM-5, con la definizione di soglie basate sul numero e la durata dei sintomi e sul grado di compromissione del funzionamento sociale. Tuttavia, successive validazioni empiriche non hanno mostrato una reale validità. In conclusione, l’uso acritico dei soli criteri operativi per i vari disturbi mentali, come specificato nel manuale stesso, è sconsigliato. I criteri integrano ma non sostituiscono le definizioni narrative delle varie categorie diagnostiche, fungono da supporto per esperti clinici in una valutazione diagnostica più complessa in cui il rilievo dei sintomi e dei segni rappresenta soltanto un elemento37. Le evidenze scientifiche relative ai dati sulle ricerche delle dimensioni psicopatologiche sottolineano l’eterogeneità delle diagnosi psichiatriche categoriali, confermando la necessità di cautela quando si utilizza tale approccio categoriale38.

Informazioni specifiche vittimologiche

È necessario specificare, quando si analizzano le dinamiche di un comportamento violento, anche le caratteristiche del rapporto con la vittima: tipologia ed evoluzione del rapporto, percepito dei fattori scatenanti, consapevolezza del danno alla vittima, comportamenti e vissuti di riparazione. Le informazioni sulla vittima possono concernere la tipologia (per es., vittima latente, vittima per vocazione, ecc.), il ruolo della vittima (precipitante, recidiva, negligente, volontaria, bloccata, ecc.), l’interscambiabilità del ruolo (da vittima a criminale, da criminale a vittima, ecc.), gli schemi comportamentali tra vittima e aggressore (reciprocamente maltrattante, dominante e succube, ecc.), le reazioni emotive sia dell’aggressore verso la vittima (disumanizzazione, svalorizzazione, proiezione della colpa, ecc.) sia della vittima verso l’aggressore (minimizzazione, negazione, formazione illusoria, ecc.)39.

Criticità della farmacoterapia

Non esistono farmaci con l’indicazione specifica di guarire il comportamento violento. Il farmaco, qualora agisse (a prescindere dalle resistenze, intolleranze, effetti paradossi, ecc.) e apportasse beneficio (a prescindere dal rapporto rischio-beneficio), non guarirebbe o neutralizzerebbe un comportamento multideterminato come il comportamento violento, ma agirebbe su un sintomo o un insieme di sintomi (per es., agitazione psicomotoria, irritabilità). Tra il sintomo e il comportamento violento vi è necessariamente la complessa valutazione dei requisiti di causalità che deve essere determinata alla luce della multideterminatezza dell’evento. Per esempio, se un paziente psichiatrico presenta un’agitazione psicomotoria, il farmaco può essere efficace nella sedazione, ma è anche vero che una gran parte di comportamenti violenti non si attua in situazioni di agitazione psicomotoria. Alcuni studi indicano che, tra i fattori che aumentano il rischio di comportamento violento nei pazienti psichiatrici, vi sia l’aderenza al trattamento. In particolare risulta che l’utilizzo di farmaci psicotropi (antipsicotici, stabilizzatori dell’umore, terapie sostitutive per le dipendenze) possono diminuire i comportamenti aggressivi in alcune categorie di pazienti psichiatrici40-45. Anche l’utilizzo di farmaci antipsicotici long-acting in pazienti affetti da schizofrenia è risultato diminuire, attraverso il miglioramento dell’aderenza al farmaco, la severità di alcune dimensioni quali l’ostilità, aggressività, il numero di incidenti violenti o di comportamento criminale45-47. Non esistono però farmaci con indicazione ufficiale e specifica per il comportamento violento, in quanto le agenzie regolatorie dei farmaci approvano l’immissione in commercio solo di farmaci sperimentati su pazienti con definite categorie diagnostiche. Il comportamento violento non rientra in un’entità nosografica ed è considerato un “sintomo”. In questo senso il farmaco quindi non è, sotto il profilo forense, un mezzo impeditivo a disposizione dello psichiatra per evitare il CVP anche in un soggetto con disturbo psichico. Quindi attribuire un valore causale giuridico diretto o concausale sufficiente al comportamento violento al farmaco e la sua gestione (dose, via di somministrazione, durata, tecniche di sospensione, ecc.) non è corretto sotto il profilo scientifico e forense25. La farmacoterapia in psichiatria inoltre necessita, a differenza di altre dottrine mediche, un fattore di correzione che tiene conto della sua complessità e criticità e che viene applicato anche nel campo forense, attraverso l’applicazione della Sent. della Corte di Cassazione (IV sez. pen. n.14766/16) che recita quanto segue: «È fuori discussione che le regole cautelari dell’attività medica presentino, in generale, un tasso elevato di peculiarità e difficoltà, non solo nella fase di verifica e della valutazione, ma anche in quella, più strettamente modale e operativa, della scelta del percorso terapeutico. Il discorso si pone in termini ancor più problematici con riferimento alla scienza psichiatrica, a fronte della imprevedibilità della condotta che caratterizza talune sindromi e taluni singoli casi, giacché le manifestazioni morbose a carico della psiche sono tendenzialmente meno evidenti ed afferrabili delle malattie fisiche, per cui il confine tra trattamento giusto e trattamento sbagliato può almeno in certi casi diventare ancora più incerto che non nell’ambito della generica attività medica».

Inoltre la psichiatrizzazione del comportamento violento comporta numerose altre criticità forensi.

Errori di metodologia clinica e forense

Tra questi errori ricordiamo la psichiatrizzazione del sintomo (considerare la tristezza esclusivamente un sintomo patognomonico di psicosi depressiva); la contaminazione pregiudiziale (considerare che tutti i disturbi psichici influiscono sempre in modo penalmente rilevante sulla capacità di intendere e di volere); il mascheramento della diagnosi (diagnostic overshadowing): ritenere che la reale o presunta psicosi presente in chi compie un CVP escluda automaticamente la presenza di tutte quelle emozioni e passioni – rabbia, vendetta, invidia, orgoglio, ecc. – che, sotto il profilo clinico – ma non giuridico: art. 90 c.p. – sono, con maggior frequenza, alla base motivazionale del comportamento violento); la causalizzazione giuridica dei fattori protettivi e di rischio (considerare che questi fattori hanno valore causale giuridico invece che valore esclusivamente di generica ipotesi eziologica clinica); ecc. Tutto ciò implica degli errori metodologici che si manifestano attraverso la non motivazione adeguata di un nesso causale tra la presenza di un comportamento violento e una malattia psichica.

L’utilizzo della diagnosi categoriale in ambito forense

Come specificato nel manuale DSM-5, l’utilizzo dello stesso e dei criteri diagnostici utilizzati per formulare una diagnosi categoriale dovrebbe essere attuato con cautela in ambito forense. Tali criteri infatti sono stati progettati per assistere i clinici nella formulazione della diagnosi, nella progettazione del trattamento e nell’identificazione di una eventuale prognosi, e come ausilio per la ricerca scientifica. Quando le categorie, i criteri e le descrizioni del DSM-5 vengono applicati all’ambito forense «esiste il rischio che le informazioni diagnostiche siano usate in modo improprio o fraintese». Una diagnosi clinica formulata in base ai criteri diagnostici del DSM-5 non implica necessariamente che un individuo con tali condizioni soddisfi i criteri legali per un vizio di mente. La formulazione di “vizio di mente” in ambito giuridico implica infatti una serie di informazioni aggiuntive come per esempio le compromissioni funzionali dell’individuo nel momento preciso dei fatti per cui si procede, e la relazione causale che tale disfunzionamento, legato eventualmente a un disturbo mentale, abbia avuto con il fatto per cui si procede, nel momento preciso, in quell’individuo e in quel contesto specifico. Nella sezione “Dichiarazione cautelativa per l’uso del DSM-5 in ambito forense” si afferma infatti quanto segue: «È sconsigliato l’uso del DSM-5 da parte di personale non clinico, non medico o non sufficientemente esperto per valutare la presenza di un disturbo mentale. Coloro che prendono decisioni legali dovrebbero anche essere avvertiti che una diagnosi non implica alcuna connessione necessaria con l’eziologia o le cause del disturbo mentale di un individuo né con il grado di controllo dell’individuo sul comportamento che può essere associato al disturbo. Anche quando la diminuzione del controllo sul proprio comportamento è una caratteristica del disturbo, la diagnosi di per sé non dimostra che un determinato individuo è (o era) incapace di controllare il proprio comportamento in un determinato momento». Da quanto specificato consegue che non è sufficiente formulare la diagnosi di “schizofrenia” ma è necessario approfondire le caratteristiche cliniche e le dimensioni psicopatologiche coinvolte in quel momento, in quello specifico paziente durante l’agito violento, descrivendo anche il vissuto soggettivo e l’invasività di tale compromissione psicopatologica sul funzionamento generale dell’individuo48.

La psichiatrizzazione di esperienze umane non patologiche

Tale errore metodologico e clinico si concreta nel mancato riconoscimento delle motivazioni all’agire che possono essere alla base del comportamento violento. Tra queste motivazioni vi possono essere quelle di tipo psicodinamico (sentimenti di grandiosità nel narcisismo, identificazione all’aggressore in caso di traumi ripetuti, atteggiamenti contro-fobici, ecc.), sociale (teoria delle aree criminali, della disorganizzazione sociale, delle identificazioni differenziali), culturali (apprendimento della “violentizzazione” del comportamento, strategie di disimpegno morale), sotto-culturale (carriere criminali, organizzazioni criminali, sotto-cultura della vendetta, ecc.). Tra le esperienze umane non patologiche vi sono anche tutte le reazioni legate alle emozioni e passioni (rabbia, vendetta, orgoglio, umiliazione, paura, invidia) che possono essere alla base del comportamento violento ma che, sotto il profilo psichiatrico-forense, non configurano un vizio di mente in senso giuridico. Un recente studio sui tratti di personalità antisociali in pazienti psichiatrici che avevano commesso un crimine violento indica che la rabbia è un fattore scatenante tale comportamento violento11.

Criminalizzazione del soggetto con disturbo psichico

La criminalizzazione del malato di mente consiste nell’attribuzione pregiudiziale ed errata di pericolosità sociale a tutti i portatori di disturbo psichico. Psichiatrizzare il comportamento violento riporta la psichiatria indietro di anni e precisamente al tempo della “pericolosità a sé e agli altri” che era alla base dell’obsoleta concezione di controllo sociale attraverso il trattamento sanitario obbligatorio (TSO). Quanto precede si afferma pur sospendendo il giudizio sul fatto che, a norma dell’art 133 e 203 c.p., sono più pericolosi in tema di recidiva del comportamento violento i criminali comuni, i tossicomani e soprattutto i soggetti criminali e tossicomani10,41. Sul piano forense non è compito dello psichiatra pronunciarsi in tema di pericolosità sociale o presentare, per principio, rimproverabilità giuridica in tema di controllo sociale sul fenomeno multideterminato del comportamento violento. Il giudizio sulla pericolosità è infatti una valutazione giuridica di difesa sociale e non una valutazione medico-psichiatrica. Tale giudizio deve essere formulato dal magistrato in caso di procedimento penale nei confronti di un individuo che abbia compiuto, per esempio, un comportamento violento, in basi ai criteri espressi negli artt. 203 e 133 c.p. (intensità del dolo, gravità della pena, gravità del pericolo cagionato alla persona offesa, ecc.). Sul piano forense è compito dello psichiatra in tema di comportamento violento fornire al magistrato tutte le informazioni psichiatriche e indicazioni di cura (quando è il caso) di sua pertinenza e competenza. Queste informazioni e indicazioni potranno essere utili al magistrato perché possa formulare, unitamente a dati che non sono di pertinenza e competenza dello psichiatra, la sua valutazione di pericolosità sociale secondo art. 133 e 203 del c.p. Uno tra gli errori metodologici in psichiatria forense è quello di confondere la gravità della malattia psichiatrica eventualmente presente nel soggetto con comportamento violento con la pericolosità, alimentando così lo stigma sociale che “più una persona è psichicamente malata più è socialmente pericolosa”.

CONCLUSIONI

Psichiatrizzare il comportamento violento significa, in concreto, negare i progressi scientifici e umani della psichiatria negli ultimi 40/50 anni, criminalizzare il soggetto con disturbo psichico procurando maleficialità di stigma e di isolamento sociale, compiere grossolani e manifesti errori scientifici nella valutazione clinica e forense dei fatti previsti dalla legge come reati. Il principio psichiatrico, sia clinico sia forense, è che un soggetto può anche essere portatore di un disturbo psichico, anche grave, ma tale disturbo non necessariamente si trova in relazione causale con il comportamento violento. La mancanza di una relazione casuale implicitamente rende difficile se non impossibile a seconda dei casi la prevedibilità del comportamento violento, sia nella popolazione generale sia negli individui con patologie psichiatriche.  


Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

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